Protocolli

Che le persone non siano solo numeri da diffondere dovrebbe essere un fatto da tenere bene in mente, tanto più negli ultimi tempi dove vi è un’enorme sovrabbondanza di cifre. Parcellizzata e settorializzata, la vita diventa sempre più un frammento che impedisce di guardare alle cose in maniera più ampia. Questo è il frutto di una vita burocratizzata, trattata in ogni aspetto della quotidianità con la lente di un codice. Basterebbe dare uno sguardo alle regole assurde che costantemente vengono imposte, anche in tempi di pandemia o emergenzialità, conseguenza di una visione asettica. O alle disposizioni che provengono dai vari specialisti, totalmente contraddittorie, perché legate a singoli aspetti che non tengono mai in considerazione tutti gli altri. Così che, nello stupore o nella rabbia di fronte ad alcune norme, viene da pensare che un minimo di cultura generale sarebbe sufficiente ad evitare amenità grossolane (ad esempio l’uso di una mascherina mentre si fa attività fisica).

Ma in fondo e d’altra parte, la questione centrale è quella dell’ordine che si vuole riportare alle cose. Da un lato un ordine economico, in cui continuino a sopravvivere privilegi, proprietà, ricchezze riservate a pochi, dall’altro un ordine sociale che possa garantire tutto questo, con una gestione centralizzata, controllando o reprimendo a seconda delle necessità.

In virtù di quest’ordine le strutture di trasformazione del mondo vengono preparate costantemente e servono a garantire lo scheletro della casa in costruzione.

Se ora si applica il coprifuoco, togliendo la possibilità di circolare dopo una certa ora, e si chiudono piazze e strade che divengono inaccessibili, ufficialmente per evitare assembramenti, da qualche anno i vari decreti sicurezza adottano la stessa ratio, limitando le libertà di alcune categorie di persone per la tutela di un modello di città sempre più escludente. Se il confinamento diviene generalizzato, la diffusione della paura fa introiettare l’autoreclusione e il rispetto delle regole senza grande dispiegamento di forza. Infine, un linguaggio da guerra civile caratterizza il modo in cui viene affrontato il rischio sanitario, facendo dimenticare altri linguaggi e metodi quali la cura e l’attenzione. Non è delegando, che sapremo affrontare meglio le questioni riguardanti la salute, la sopravvivenza, il tempo e gli spazi dell’esistenza.

La non sottomissione quindi è l’antica ricetta che può essere usata per non ridurre la complessità della vita a un protocollo.

Nessun luogo, dicembre 2020

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