Contro TAP

IL GRANDE RECUPERO

Volantone distribuito a Lecce il 22 giugno in occasione della proiezione del documentario «La grande opera», sul gasdotto Tap e relativa opposizione.

E(ste)tica

Secondo Leopardi, la “seconda vista” era caratteristica dell’uomo sensibile e immaginoso, e c’è stato un tempo in cui questa “seconda vista” è stata messa a frutto dal mondo dell’arte, anche in termini di contestazione dell’esistente e dei suoi dogmi. Accadeva in epoca di grandi sogni e grandi speranze… Oggi ai sogni è subentrata la realtà, e la “seconda vista” è stata soppiantata da una forte miopia, che tuttalpiù spinge gli artisti a vedere fino al più vicino scranno del potere, presso cui chiedere udienza per accedere alle briciole di qualche finanziamento pubblico; impossibile pensare in termini di surrealismo, quando ci si accontenta del più becero realismo.

Potrebbero bastare queste poche parole per esprimere il nostro pensiero sul documentario «La grande opera», che pretende raccontare la realizzazione del gasdotto Tap e la relativa contestazione che lo ha accompagnato. Un film che vuole avere una visione «equidistante» tra le forze in gioco, secondo lo sguardo dell’«osservatore sociologico» che non prende posizione tra le parti in causa; evidentemente schierarsi non è da tutti, e men che meno può esserlo per un regista che attinge a finanziamenti istituzionali e lavora per l’Università della Repubblica.

Si tratta in pratica di un’opera di recupero delle istanze di protesta e di pacificazione sociale, nella cui «equidistanza» si manifesta l’idea che nell’imposizione e realizzazione di una grande opera, così come in qualunque altro aspetto della vita sociale, esistano visioni che possono apparire giuste o sbagliate, ma non esiste invece uno scontro di classe perpetuo e secolare tra ricchi e poveri, tra potenti e sottomessi, tra sfruttatori e sfruttati, tra classe dominante e classe subalterna, tra padroni e schiavi, tra inquinatori e vittime dei loro veleni…

Ma un’opera di recupero non è tale solo in virtù di chi la pensa e la realizza ma anche – e forse soprattutto – grazie a coloro che si prestano a parteciparvi, tanto più in una circostanza come quella in questione in cui gli “interpreti” non sono figure assunte ad hoc, ma personaggi – è proprio il caso di dire! – che all’opposizione a Tap hanno preso parte direttamente e preferiamo, per il momento, non entrare nel merito del ruolo che hanno avuto nel fallimento di quella lotta… Basterà per ora sapere che il documentario è stato prodotto anche grazie al sostegno di Apulia Film Commission, emanazione culturale della Regione Puglia il cui governatore, Michele Emiliano, è stato accanito sostenitore della realizzazione del gasdotto, auspicandone solo un diverso approdo. Ma forse gli “interpreti” del documentario tutti questi problemi li hanno messi sotto il tappetto fieri che un giornalista si sia «occupato di una prima fase di osservazione del movimento No Tap, selezionando le persone cinematograficamente più interessanti».

Come dargli torto? Il regista lo ha affermato chiaramente: per lui guadagnare la fiducia dei No Tap «era possibile solo attraverso il racconto di un’etica di uno sguardo che diventa estetica del film».

Dall’etica all’estetica il passo è davvero breve: solo tre lettere in più.

Questa sera a teatro!

Benvenuti ad una splendida serata a teatro! Tra maschere e personaggi (che sono poi la stessa cosa) questa sera si proietterà un documentario sul gasdotto trans adriatico dal titolo: “La Grande Opera”. Forse il titolo è anche autoreferenziale visto che lo stesso regista, Corrado Punzi, è tanto attento all’estetica da trasformare “il racconto di un’etica”.

In un’intervista rilasciata al Manifesto, pubblicata sul numero di sabato 18 giugno 2022, per promuovere l’ultima fatica, ma anche per preparare eventuali spettatori alla miglior fruizione dell’opera, l’autore ci confida quale fosse lo scopo di girare il documentario e la modalità narrativa preferita. Naturalmente l’equidistanza è una forma mentis per il nostro, dato che si tratta di un accademico, ricercatore in sociologia, dunque aduso a vedere l’altro da sé come un oggetto da analizzare. E (come sa bene ogni giornalista e cioè che un po’ di denaro e di fama valgono anche gli anni di galera che gli altri potrebbero subire per le loro riprese) non perde occasione per infilare una carrellata di scontri con le forze dell’ordine tra un racconto della buonanotte ed una gita coi bambini; gentile concessione del Comitato No Tap, non si sa mai, alcuni fotogrammi potrebbero essere sfuggiti agli agenti.

Nell’intervista su citata, Punzi confessa che da spettatore non vorrebbe una conferma delle sue idee, ma su questo punto bisogna deludere l’artista, perché è proprio quello che è successo. La visione della grande, prolissa, opera cinematografica non ha fatto altro. Innanzitutto ha confermato l’idea che tutto è spettacolo, ma lo sapevamo da tempo. Che chi è abituato a mangiare nella ciotola, non morde la mano del padrone; infatti il film può essere facilmente inteso come un encomio del progetto, voluto anche dallo Stato. Ha confermato l’atteggiamento vittimistico di entrambe le parti. Ha confermato il ruolo delle istituzioni: “Sono tutte dalla nostra” dice senza peli sulla lingua durante un meeting di Tap il suo amministratore delegato. Confermata la miopia di chi crede di aver la vista lunga, come quei contestatori che credono di poter cambiare il mondo a forza di piccole riforme, ma temono conseguenze per la scuola e il lavoro, veri pilastri di quel mondo che non vorrebbero. Ha confermato, inoltre, la mania di protagonismo di alcuni personaggi visti in quel periodo a San Foca.

L’intervista è condita con un altro spunto interessante che, però, resta sospeso: “Quello che è interessante, ed è importante partire senza pregiudizi, è raccontare le contraddizioni all’interno di un movimento e cercare di far pensare allo spettatore che se ci sono delle difficoltà non possono essere attribuite solo alla repressione giudiziaria (infatti nel film si omette che le condanne inflitte sono tre volte superiori alle richieste dell’accusa) e mediatica, ma evidentemente ci sono delle responsabilità interne. Ecco finalmente qualcosa di serio, che però il documentario non illustra affatto. Chi ha vissuto quell’esperienza ne potrebbe raccontare di responsabilità interne come: finti cortei ad uso e consumo di giornalisti e film makers (credendo di lottare?), un Comitato che si eleva a Movimento per non lasciare alcuno spazio al di fuori di esso, aderenti al Comitato che si lasciano andare a nauseabonde delazioni, auto-proclamati portavoce che fanno accordi con la prefettura a nome di tutti quegli altri che invece erano lì a lottare, persone che si dichiarano anarchiche, ma continuano a relazionarsi con la gentaglia succitata (del comitato fa parte anche il sindaco), autoritarismo dei pacifisti e via dicendo.

Nonostante tutto ciò, l’Apulia film commission regala (ok c’è un biglietto da 7 euro) l’ennesima grande opera d’arte, vi consigliamo di non mancarla, potreste ritrovarvi seduti a fianco agli attori e magari nuove star del cinema o, con meno fortuna, la digos. Non dimenticate di comprare popcorn e bibite, magari alla caffeina.

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Verrà proiettato stasera “La grande opera”, documentario sull’ultima stagione di opposizione contro il gasdotto Tap e l’ultima fase di realizzazione dello stesso.

Il regista Corrado Punzi ha affermato di aver dato voce ad entrambe le parti, fatto già aberrante, in modo che lo spettatore possa avere da sé la propria opinione a riguardo; riteniamo invece che il documentario, pur nella sua indolenza e noiosità, prenda distintamente una posizione ed esprima un messaggio per noi inaccettabile: quello della pacificazione, della controversia democratica tra chi ha costruito un’opera fortemente impattante e chi l’ha contrastata.

Documentario finanziato da Apulia film commission e Regione Puglia, che, è bene sottolineare, nel corso del tempo ha fortemente caldeggiato e favorito la costruzione del gasdotto.

Non ci stupisce in fondo che questi piccoli regista, sceneggiatore e montatore che lo hanno realizzato, abbiano messo in scena un’ora e mezzo di recupero di una lotta, con la disponibilità di chi si è prestato a partecipare a questa operazione abietta. Era già accaduto con “Et in terra pacis”, corto sulla vicenda del CPT Regina Pacis. Ora ci riprovano, con un altro regista, con “La grande opera” che suggerisce la grandiosità appunto di un’opera industriale e la sconfitta di un movimento di opposizione. D’altra parte non poteva essere altrimenti dal momento che le riprese sono iniziate a cose fatte. Poiché i piccoli regista, sceneggiatore e montatore, sembrano arrivare sempre in ritardo, probabilmente impegnati alla ricerca di qualche finanziamento pubblico, vogliamo ricordare, dal nostro punto di vista, cosa è accaduto, affinché il revisionismo e il recupero non cancellino alcuni anni di lotta.

Tap ha iniziato i lavori nel marzo 2017 ma l’opposizione è iniziata alcuni anni prima, fin da quando il Consorzio si è presentato sul territorio. Oltre alla protesta riformista, fatta di raccolta firme e denunce giudiziarie, si sono verificati sabotaggi e contestazioni molto accese. Fino ad arrivare agli espianti degli ulivi, bloccati un primo giorno da soli otto manifestanti e poi, nei giorni successivi da centinaia e centinaia di persone. In quei mesi vi è stata l’espressione di una ostilità autentica, spontanea, autorganizzata, senza capi, piena di fantasia, entusiasmo e gioia, in cui la possibilità che il gasdotto non venisse costruito era concreta. Poi vi è stato un lento declino, la costituzione di un movimento omologante e non più variegato, il protagonismo smodato di alcuni personaggi, l’inizio della repressione attraverso decine di multe di migliaia di euro per i numerosi blocchi verificatisi e, infine, l’istituzione della zona rossa. La realizzazione del gasdotto Tap, considerata opera strategica dall’Unione Europea, aveva ed ha alle spalle interessi enormi: istituzioni, colossi petroliferi, come British Petroleum e Lukoil, e la spasmodica richiesta di energia di questa società piena di merci, la cui economia guerrafondaia ha previsto e realizzato il progetto folle di un gasdotto che percorre più di 4000 km, coinvolgendo sei Stati e le popolazioni annesse, che in molti casi si sono opposte al suo passaggio.

Tap è un mostro già nella sua idea, che è quella che tutto si può sfruttare e colonizzare, tutto è mercificabile, esattamente come vuole fare questo documentario con una lotta.

Lotta il cui epilogo si è avuto già tanto tempo fa e i processi pesanti che ha subito sono purtroppo il risultato della sua debolezza e del ruolo stesso che ha la magistratura: mostrare i denti con chi lotta ed essere molto accondiscendente con chi è potente.

Presto anche questo ennesimo documentario revisionista e recuperatore verrà dimenticato insieme alla sua estetica del reale; vivo rimarrà il ricordo dei momenti vissuti di notte e di giorno e delle pratiche adottate a difesa di un’idea, di un metodo, di una terra, della natura, contro i suoi devastatori e sfruttatori.

Il grande recupero pdf                                                                  Anarchici e Nemici di Tap

giugno 2022

Sudditi e suddite, state a sentire!

A scrivere è chi comanda nel vostro territorio e chi comanda è chi ha soldi e potere. Sono sorpreso della vostra ingenuità. Pensavate di potervi opporre ad una grande opera, dietro la quale vi sono fiumi di denaro, interessi, potere.

E per un po’ di tempo, il rumore delle vostre proteste mi è arrivato. Si tratta ormai di qualche anno fa. Pensavo di finire l’opera in quattro e quattro otto e invece una manciata di cafoni, idealisti, ecologisti, alcuni senza Dio né padroni, gente che pretendeva di difendere la sua terra si è messa in mezzo.

Stava accadendo l’imprevisto. Il progresso – perché lo sapete che si chiama progresso, la devastazione della natura e il profitto che se ne ricava -, il progresso, si voleva fermare il progresso!

Ma che cosa potevate voi, manciata di ingrati, che non apprezzate le briciole che cadono dalle tavole dei potenti, che non accettate le compensazioni!

Altri, più furbi e decisamente più moderni, lo fanno. C’è chi venderebbe pure la propria madre in cambio delle briciole, di potere, di visibilità, di un po’ di denaro.

E voi invece testardi! Nell’indifferenza generale, perché dovete ammetterlo che la gran parte della gente se ne sta comodamente a casa o su facebook, voi vi siete messi in mezzo, sfidando i guardiani del potere, senza i quali, in effetti, poco si potrebbe fare.

Avete messo in mezzo i vostri corpi, avete gridato, sbraitato, manifestato, bloccato e avete pure sabotato.

Ma sudditi e suddite, io dalla mia ho la polizia, i carabinieri, la guardia di finanza, la polizia scientifica, i servizi segreti, e se serve anche l’esercito, l’aeronautica e la marina militare. Eppure voi testardi, sempre lì, a dare fastidio, a tentare di mettere i bastoni tra le ruote.

Ora che avete capito che anche la giustizia dei tribunali è dalla mia parte – come poteva essere altrimenti? – spero vi darete una calmata.

Devo dire che anche io ho commesso un errore. No, non quello di aggirare la legge, di inquinare o imporre con la forza la mia presenza su un territorio. No, questa è la normalità delle grandi opere, la normalità del potere.

Il mio errore è stato non considerare l’imprevisto, e cioè esseri umani, pensanti, talvolta idealisti, talvolta senza Dio né padroni, che lottano, che rischiano, che odiano il potere.

E cioè non considerare che non tutti sono sudditi e suddite e che tutti potrebbero non esserlo.

E mi auguro fortemente che questi gesti non vengano comunicati né suggeriti, né attuati, perché che cosa accadrebbe se si diffondesse la pratica dell’odio verso il potere?

sudditi e suddite                                                                                                       31 marzo 2021

Dei diritti e delle pene

                                                                             E un giudice, un giudice con la faccia da uomo                                                                                        Mi spedì a sfogliare i tramonti in prigione                                                                                    F. De André, Un medico

 A furia di evocarla, si è manifestata realmente. Parliamo della Giustizia, naturalmente; quella stessa Giustizia che, a chiusura di tre processi a carico di circa un centinaio di manifestanti che si erano opposti alla costruzione del gasdotto Tap, ha chiuso la sua prima fase condannandone una ottantina, a pene comprese tra tre mesi e tre anni e due mesi.

Pare che queste condanne abbiano suscitato un certo scandalo, ed in molti sono addirittura arrivati ad accorgersi che un giudice faccia il lavoro da giudice, ovverosia condanni.

È lecito chiedersi cosa ci si aspettava, e soprattutto cosa si attendevano tutti coloro che da anni chiedono incessantemente che la Giustizia intervenga, salvo lamentarsi quando poi lo fa veramente. Perché, sia chiaro, la Giustizia è proprio quella che ha emesso la sua sentenza nella data del 19 marzo, ovvero uno strumento – fra gli altri – a difesa dell’ordine costituito. Oppure qualcuno pensava che un giudice imparziale avrebbe valutato correttamente i fatti e, se anche avesse trovato qualche irregolarità o indizio di reato, sarebbe sceso dal suo scranno per dare una pacca sulla spalla agli imputati, dicendo che in fondo non era poi così grave, e che anzi erano loro ad essere dalla parte della ragione, perché si erano opposti a un “mafiodotto”, a un’opera “climalterante”, ad un progetto “inutile e dannoso”? Suvvia, sarebbe stato quantomeno ingenuo pensarlo…

Forse allora bisognerebbe fare una riflessione, dopo che per anni ci si è appellati all’intervento della magistratura per bloccare l’opera, con tanto di sit-in fuori dal tribunale per provare a sollecitarla. Forse bisognerebbe riflettere sul cammino compiuto a braccetto delle istituzioni – sindaci, parlamentari, ecc. – per provare a contrastare il gasdotto, pensando al fatto che i tribunali altro non sono che l’organo giudiziario di quelle stesse istituzioni. Forse bisognerebbe fare una riflessione, dopo che sono stati invitati a sostenere la lotta dei giudici esattamente uguali a quello che ha emesso la sentenza; un giudice, come il troppo tardi defunto Imposimato, che è stato al vertice nel condannare migliaia di uomini che avevano tentato l’assalto al cielo in una lunga stagione di lotte, uomini come un bandito morto di recente che ora viene commemorato anche da chi ha invitato quel suo nemico. Forse, ancora, bisognerebbe fare una riflessione, quando si parla dei giornalisti che raccontano bufale e fanno da reggi moccolo alle opere del potere, mentre per anni sono stati invitati giornalisti, anche di provenienza fascio-leghista, a sostenere le ragioni della propria lotta.

Dovremmo prendere coscienza del fatto che non è possibile separare l’opposizione ad un tubo che trasporta gas da una più ampia opposizione, o quantomeno contrarietà, al mondo intero che vuole realizzare determinate opere; alle ragioni economiche, politiche e sociali che di quel mondo sono, nello stesso tempo, il fondamento e il riflesso.

                                               [Le leggi sono] gli obblighi che i più forti, i più fini e i più astuti,                      hanno imposto ai più deboli, al fine di mantenere le loro disastrose istituzioni,                              o anche per impedirne gli inconvenienti funesti nella misura del possibile.                         F. Boissel, 1789

Una certa indignazione si era manifestata, da parte del Movimento che si opponeva a Tap, all’indomani della sentenza di prescrizione per la strage di Viareggio, in cui era imputato, tra gli altri, l’ex country manager di Tap, Michele Mario Elia. Ora, a parte la spregevole pratica di augurare la galera a chicchessia, neanche quella prescrizione pare essere stata utile a far capire che il potere quasi mai condanna se stesso, ed anzi utilizza tutti gli strumenti a sua disposizione – compresi i cavilli legali – per autoassolversi e assolvere i suoi servi più fedeli.

Pensare di utilizzare il Diritto per opporsi a chi quello stesso Diritto stabilisce, impone e gestisce, conduce nello stesso vicolo cieco in cui finiscono le opposizioni alle grandi opere portate avanti per mezzo degli strumenti burocratici, politici e giuridici, come l’opposizione a Tap – quantomeno una certa opposizione – si è incaricata di dimostrare. È solo provando a distruggere o andare oltre, scavalcando quella concezione di Diritto, e quindi anche le concezioni e le strade burocratiche, politiche e giudiziarie, che si può tentare di percorrere fino in fondo una opposizione reale e incisiva ai progetti che ci vengono calati sulla testa, che si tratti di un gasdotto come di qualunque altra imposizione, come potrebbe essere una vaccinazione di massa.

Al di là di ciò, restano solo le geremiadi per condanne che si ritengono ingiuste o particolarmente severe, e la possibilità di racimolare denaro per pagare, presumibilmente, le multe che il Diritto ha appioppato.

Continuare le lotte quando le repressione colpisce, si diceva una volta, senza arretrare o rifugiarsi in questioni giuridiche. Ma questo è possibile solo qualora quelle lotte non siano state portate avanti sotto il profilo tecnico-giudiziario, auspicando interventi della magistratura per rilevare irregolarità o punire degli sbirri cattivi contro cui non accenna a voler procedere, perché in tal caso la strada è segnata in partenza.

Forse è da qui che bisogna ripartire.

[29 marzo 2021]

Ora pro nobis. Fine ingloriosa di una lotta

Iniziata con blocchi stradali e barricate, danneggiamenti e sabotaggi, la lotta contro Tap – quella pratica, quella per opporsi per davvero, partita il 20 marzo 2017 – arriva alla sua conclusione con una “preghiera per la Madre Terra”. Dalla fisicità dei corpi di individui che si opponevano al transito dei camion, si è arrivati all’incorporeità fantasmatica della religione, della spiritualità e della metafisica. Dalle possibilità offerte dai pensieri e dalle braccia di persone coscienti, si è arrivati ad affidarsi all’inconsistenza ectoplasmatica dei fantasmi e del sovrannaturale.

Si tratta della miserabile fine di una lotta iniziata bene e finita malissimo; una fine miserabile ma inevitabile, considerato che la presenza dei fantasmi ha iniziato subito ad aleggiare sulla lotta contro Tap. Dalla consapevole fisicità delle proprie possibilità, infatti, molto presto alcuni hanno voluto trascinare la lotta verso l’inconsistenza della politica, per passare poi all’impalpabilità della Legge e giungere oggi al suo inevitabile, triste epilogo, accompagnato da una serie di figure e figuri impegnati a raccontare le loro mitiche gesta, a lamentare la cattiva repressione che li perseguita, per tentare di blandire qualche cuore generoso e spingerlo ad aprire il portafogli per una donazione più o meno cospicua.

Su tutto ciò, fin dall’inizio, ha aleggiato lo spirito di un altro fantasma: quello della “lotta popolare”. Un fantasma che, partito da territori lontani, ha esteso le sue metastasi fino agli ulivi del Salento; una “lotta popolare” che voleva essere lotta di popolo intesa come lotta unica, castrando le innumerevoli possibilità che avrebbero potuto aprirsi se il popolo – questo ennesimo ectoplasma – fosse considerato come un insieme di individui diversi tra loro, anziché un blocco monolitico, una massa indistinta. È nel nome del popolo che questo genere di lotte può perdere la sua iniziale spinta ed abortire la sua fantasia, nel segno di un adeguamento ed adattamento delle forme della lotta su quelle che la maggioranza del popolo vuole, e ci si adatta e si rinuncia alle proprie, per non fare cosa sgarbata.

C’è un abisso incolmabile tra l’entusiasmante inizio della lotta e la sua miserabile – seppure inevitabile – fine. Un abisso che è prodotto del pensiero che accompagna la lotta stessa. Se per fare le barricate è necessario stare in piedi, muoversi, usare le braccia, ingegnarsi e mettersi in gioco, per pregare è sufficiente inginocchiarsi, giungere le mani ed affidarsi ad una entità presunta superiore. Ma quell’inginocchiarsi è il segno più limpido della sottomissione, ed inginocchiarsi e sottomettersi oggi davanti all’ectoplasma religioso, spirituale o metafisico, è l’inevitabile capolinea di chi prima si è inginocchiato e sottomesso ai fantasmi della politica, della Legge e della lotta popolare, abdicando alle proprie facoltà di individuo non sottomesso.

Lo sanno anche loro, gli adoratori di fantasmi, anche se non vogliono ammetterlo, ed è per questo che da tempo hanno smesso di ammorbare con il loro hastag di battaglia tanto non la fanno.

Requiescat in pacem.

Nemici di Tap

4/7/2020

Unità di misura
Quello di Hywind in Scozia è il primo progetto di parco eolico galleggiante costruito da Statoil, fornitore di Tap, secondo fornitore in Europa di gas, partner del consorzio di Shah Deniz in Azerbaijan, principale operatore petrolifero in Atlantico. Ma Statoil investe moltissimo anche nelle energie rinnovabili, e nell’eolico offshore in particolare, soprattutto in nord Europa. Anzi considera quella
delle rinnovabili come la prossima frontiera per la produzione di energia,
e i motivi non sono poi così oscuri. La finitezza delle materie prime fossili fa
sì che la ricerca spasmodica di produzione di energia sfrutti altre fonti e lo faccia con tecnologie avanzatissime che si perfezionano continuamente.
Le fonti cosiddette rinnovabili si aggiungono a quelle tradizionali. E questo
perché? Uno dei motivi ce lo fornisce la stessa Statoil.
Al parco eolico di Hywind è stata affiancata una nuova soluzione di accumulo di batterie per l’energia eolica offshore (Batwind). La capacità di accumulo
e conservazione di energia da parte di Batwind corrisponde alla batteria di
oltre 2 milioni di iPhone, secondo i dati forniti dalla multinazionale norvegese.
Elemento da sottolineare per vari motivi. Spesso quando vengono pubblicizzati i nuovi modelli di auto, tecnologie o elettrodomestici, viene pubblicizzata
anche la loro capacità di risparmio energetico, ma questi dati non tengono
conto né della durata di quei prodotti né del consumo energetico che essi
hanno complessivamente. Significa che la produzione, la vita e lo smaltimento
delle numerose merci e dei dispositivi tecnologici ancor di più, che invadono
la vita quotidiana, hanno un impatto devastante sulla natura che ci circonda.
Considerare gli iPhone come unità di misura fa comprendere a cosa serva
gran parte dell’energia prodotta e quale sia il mondo che si progetta e si costruisce. Opporsi ad un gasdotto senza opporsi anche alle energie cosiddette
“alternative” si dimostra così una falsa soluzione.

Tratto da Tilt, aperiodico di lotta contro il Tap, n. 2, aprile 2018

 

PIOVONO PIETRE

Pochi giorni sono passati da quando è stato effettuato un arresto nei confronti di un manifestante contro Tap, accusato di aver lanciato pietre sulla polizia che scortava dei camion diretti al cantiere, per provare a bloccarli.

Com’è ovvio, la canea mediatica ha dato il peggio di sé, approfittando delle lamentele del questore per il fatto che nessuno abbia ringraziato lui e i suoi scherani per il lavoro svolto quotidianamente, tra cui quello di impiegare migliaia di sbirri di ogni genere, pronti a bastonare nel nome della Democrazia. Perché non bisogna dimenticare che questo è il ruolo di ogni sbirro in ogni parte del mondo: difendere l’ordine costituito a suon di bastonate, lacrimogeni, idranti, colpi di pistola… Pratica che sarebbe stupido lamentare come violenta o eccessiva solo in alcuni casi, ma che è regola non solo con chi manifesta contro una grande opera, ma contro il ragazzo beccato a spacciare, l’immigrato clandestino, l’ubriaco che schiamazza per strada… Ordine e Manganello sono uno complementare all’altro, vivono in simbiosi. Gli Stati non reggono solo sul Diritto, ma sulla Forza che di quel Diritto è emanazione.

Alla luce di ciò, non scandalizza affatto che piovano pietre sugli sbirri in generale, ed in particolare quando difendono il colonialista di turno – Tap, nel caso specifico – che vuole imporre un’opera osteggiata da molti. Meraviglia invece il contrario; meraviglia che quelle pietre siano così poche. Sorprende che a lanciarle sia una parte di coloro che contestano il gasdotto, mentre altri depositano ricorsi. Sorprende, semmai, che nel corso dei blocchi a scendere dai marciapiede sia solo una parte dei manifestanti, mentre altri restano immobili a riprendere col telefonino. Sorprende che quando accade un sabotaggio ci sia sempre chi urla al complotto e alla dietrologia del “se lo sono fatto da soli” e non si inizi invece a riflettere, ognuno guardando nel suo cuore ed aprendo la mente alla più sfrenata fantasia, in quale altro modo sia possibile intervenire per fare altrettanto ed anche di peggio. Perché per bloccare Tap questa sarebbe la strada migliore: il sabotaggio diffuso che lo colpisca in ogni suo aspetto; l’attacco diretto verso tutti coloro – uomini, mezzi e strutture – che ne permettono e garantiscono la costruzione.

Le forze dell’ordine sono solo il tassello più immediatamente riconoscibile di tutto questo meccanismo.

Che le pietre continuino a piovere.

Aprile 2018

 

COMBATTERE IL TAP

Il Trans Adriatic Pipeline (TAP) è in via di costruzione al fine di trasportare gas naturale dal Mar Caspio in Europa. Il gasdotto partirà vicino al villaggio greco di Kipoi al confine con la Turchia (dove si collega con il Trans Anatolian Pipeline). Da lì dovrebbe attraversare il nord della Grecia per 550 chilometri, arrivare poi in Albania da dove attraverso il mare Adriatico raggiungere nuovamente la terraferma nel Salento, in Italia. Lungo il tracciato in Grecia, il gasdotto dovrebbe contemplare 22 stazioni con valvole di blocco (punti in cui è possibile chiudere il gasdotto, ad esempio per motivi di sicurezza o di manutenzione), una stazione di compressione vicino a Kipoi ed un’altra vicino a Serres (in cui la pressione viene aumentata per ottimizzare il trasporto). Il progetto ha iniziato ad essere sviluppato nel 2003, nel 2015 sono stati avviati i lavori reali in Albania. Nel frattempo i lavori sono cominciati anche in Italia ed in Grecia.

I testi qui pubblicati sono stati scritti in Italia, dove è in corso una lotta contro questo progetto del potere. I testi parlano della specificità di questo progetto e dei suoi diretti responsabili, della distruzione ecologica e della militarizzazione dei territori, ma anche del valore simbolico di questo progetto per l’economia, lo Stato e l’oppressione in generale. Gli scritti si concentrano su questo elemento specifico del sistema, ma con un occhio costante sulla realtà più vasta, sulla totalità del dominio di cui esso è una parte. Questi testi non hanno altra intenzione che quella di incoraggiare chiunque, ovunque, anche in pochi, a sabotare ed attaccare questo progetto, chi ne trarrà profitto e l’esistente che servirà.

Infine, o meglio per cominciare, i seguenti testi propongono un metodo, un modo per lottare, a chiunque voglia battersi contro questo gasdotto. Essi sottolineano la possibilità e l’importanza di lottare in modo autonomo, anti-istituzionale e diretto, di sabotare e distruggere ciò che ci sta distruggendo.
Come potremmo combattere il mondo della politica usando la politica? Come potremmo combattere il mondo dell’autorità creando noi stessi leader e capetti? Come potremmo combattere questo mondo che cerca di privarci di ogni reale autonomia, delegando noi stessi una parte delle nostre lotte ai media o all’opinione pubblica? Non è possibile, sarebbe una presa in giro.
Nel modo in cui ci poniamo in conflitto con questo mondo, portiamo le idee di un mondo nuovo e totalmente diverso. E queste idee prendono vita qui ed ora, nella nostra rivolta contro il dominio.

Atene 2018

Elenco dei testi:
1 / Combattere il TAP
3 / Alcune righe sul TAP
11 / Dall’altra parte
23 / Ridendo, sotto sotto…
25 / A cosa serve l’energia?
35 / La guerra in casa
37 / Alcuni indirizzi utili

Μάχοντας τον TAP

 

NO A TAP, PER BLOCCARE TUTTO

Da alcuni anni a questa parte ormai la questione Tap è balzata agli onori delle cronache.

Esattamente dal 2013, quando il consorzio Tap è stato scelto per la realizzazione di un gasdotto  attraverso Turchia, Grecia, Albania, Mar Adriatico fino all’Italia con approdo in Salento, per collegarsi a un altro gasdotto, il Tanap, che unisce la Turchia all’Azerbaigian (dove si trovano i giacimenti di gas naturale), per diventare infine Snam, risalendo lungo la dorsale appenninica italiana – la cosiddetta “rete Adriatica” – fino all’Austria.

Migliaia di chilometri di tubi, alcune centrali di pressurizzazione e depressurizzazione del gas, pozzi di spinta, microtunnel per collegare la terraferma al mare, cavi di fibra ottica per tutto il tracciato, cantieri che distruggeranno pezzi di paesaggio e ambienti locali, forti rischi di incidenti ed esplosione, inquinamento atmosferico, mezzi pesanti che percorreranno le strade per anni, aumento esponenziale della quantità delle forze di polizia, trasformazione industriale dell’economia di un territorio e conseguente perdita delle possibilità che le persone che li abitano possano scegliere di darsi. Ce lo ha mostrato l’Ilva di Taranto, a pochi chilometri da Lecce e da Melendugno, dove il gasdotto approderà. Presentata negli anni Sessanta come avanguardia del progresso, l’Ilva, il più grosso impianto siderurgico europeo, ha lasciato dietro di sé solo il deserto, animato da un alto concentramento di tumori e malattie e nessun’altra possibilità di sopravvivenza compatibile con l’impianto. Da alcuni anni a questa parte ciò sta accadendo anche nella provincia di Lecce. L’affare Xilella e il disseccamento degli ulivi, con il grave sospetto, affermato addirittura dalla magistratura, che tutto sia iniziato e continui al fine di favorire le grosse multinazionali agro-farmaceutiche, quali Monsanto, Bayer, e altre, insieme al gasdotto Tap, dà l’idea di un tentativo di trasformazione radicale di un territorio, probabilmente ritenuto poco produttivo da un’economia abituata a sfruttare ogni centimetro quadrato sfruttabile. Il recente decreto del ministro italiano per l’agricoltura che, per arginare la xylella impone un uso massiccio di pesticidi, dai cigli della strada alle campagne, pena multe salate, né è assolutamente una conferma. Le cosiddette energie rinnovabili con i loro parchi eolici e fotovoltaici (ed evidente capovolgimento del linguaggio), centrali a biomasse e forte cementificazione e privatizzazione delle coste, queste ultime finalizzate a favorire il turismo, fanno da cornice importante a questo quadro.

 

Energia

Ma se uno sguardo locale può esserci d’aiuto, questo risulta essere assolutamente limitato e limitante se si vuole capire meglio che cos’è il gasdotto Tap, quali sono le sue implicazioni e la sua ragion d’essere, che è principalmente la stessa che afferisce alle fonti che producono o trasportano energia. Questa società o questo sistema, che tanti considerano inseparabile dall’apparato Stato, dagli apparati burocratici internazionali e da quelli economici che dettano le regole a livello finanziario globale, è fortemente energivoro e lo sarà sempre di più, e basta poco per rendersi conto di quanto questa riflessione sia imprescindibile. Due esempi su tutti ci dimostrano quanto la necessità di energia sia ritenuta irrinunciabile e, per questo, considerata strategica, primaria.

Che l’economia capitalista si alimenti attraverso la guerra non è un fatto nuovo. Le guerre spesso vengono scatenate proprio per dare nuova linfa ad economie statali in crisi, attraverso la produzione di armi e macchine belliche. Oppure è proprio la ricerca, il possesso, la gestione di fonti energetiche fossili a dettare il calendario di qualche guerra. Si veda ad esempio quanto accade in Siria, dove esistono proprio grandi giacimenti di gas naturale e dove da tempo la popolazione viene martoriata in una guerra dimenticata. Qualunque siano le ragioni che alimentano un conflitto bellico e la conseguente dose di morte e devastazione che si porta dietro, esso non può avvenire senza un utilizzo impressionante di energia. Il consumo di un solo caccia bombardiere (un caccia F-15 consuma 7000 litri di cherosene all’ora) può dare un’indicazione significativa.

Altro esempio è quello della tecnologia in riferimento all’approvvigionamento di fonti energetiche che, inutile dirlo, non si sostituiscono le une alle altre, ma si sommano. Le fonti rinnovabili ad esempio non rappresentano un’alternativa alle fonti fossili ma sono ad esse complementari nella proliferazione e nella gestione di questo mondo.

La tecnologia ne è ormai il pilastro portante. E sono note le analisi su implicazioni, conseguenze, problematiche, irreversibilità, sia per la natura e sia per le persone, da un punto vista ambientale e forse soprattutto sociale. Le città, con il modello smart cities, saranno sempre più centri pulsanti della connessione e della comunicazione veloce, oltreché del controllo di ogni aspetto della vita quotidiana. Nel 1800 fu l’introduzione dei codici come modelli normativi a dare all’organizzazione sociale chiamata Stato la sua intromissione in ogni aspetto della vita del cittadino. Oggi i codici che controllano tutto e tutti sono gli algoritmi informatici. Ad essere in pericolo in effetti, in una società totalizzante e livellante, omologata, rigida, incasellata, sotto controllo, sono le stesse pulsioni, emozioni, capacità, pensieri. E ciò lo stiamo vivendo già con il dilagare dell’utilizzo degli smartphone, strumenti fondamentali anche di una smart cities. Per permettere la produzione, la vita e lo smaltimento di milioni di smartphone, così come per alimentare una smart cities o una qualunque città con il suo fabbisogno tecnologico, oppure per alimentare un server informatico è necessario un approvvigionamento di energia imponente e quindi è necessario incidere sulla natura, devastandola, realizzando qualche gasdotto o qualche parco eolico, oppure estrarre ancora delle fonti fossili. Se a tutto ciò si aggiunge l’energia necessaria alla produzione di una quantità sproporzionata di merci, e alla loro distribuzione, il quadro risulta essere ancora più chiaro.

Per questo non può che essere una favola quella della sostenibilità delle fonti energetiche o di una green economy che salvaguarda l’ambiente. Niente è sostenibile con questo modello sociale, si tratta semplicemente della gestione di una catastrofe.

 

Internazionalizzare la protesta

A cosa può servire quindi opporsi ad un gasdotto.

Come è possibile affiancare un’opposizione nei confronti di una nocività specifica ad un’opposizione più generale. Come fare a coniugare un’opposizione che spesso rischia di impantanarsi nella difesa di un lembo di terra, con l’attacco a questo mondo. Come fare a rendere l’opposizione al gasdotto Tap un’occasione per mettere in discussione molto altro.  Per autorganizzarsi, per guardare oltre il proprio giardino, per prendere consapevolezza, per andare oltre il riformismo e l’educazione statale, per riflettere sulla necessità della violenza da un lato e sulla società dello spettacolo dall’altro. Per tralasciare gli orpelli e i dispositivi di una vita ingabbiata e andare verso l’incertezza dell’immaginario.

Gli strumenti di cui ci siamo dotati sono stati il rifiuto costante della delega, la critica dell’opposizione riformista e dello Stato, l’orizzontalità. E questi strumenti sono stati necessari negli anni per portare avanti un discorso di controinformazione costante e coerente e azioni di disturbo; nel corso degli anni, inoltre, sono stati compiuti alcuni sabotaggi anonimi. La ricerca del nemico, con tutte le sue ramificazioni, ha consentito di stilare una lunga lista di contrattisti e appaltanti di Tap, a cominciare dal suo azionariato fino alle ditte locali vendutesi per un piatto di lenticchie.

Questa è sicuramente una possibilità che può internazionalizzare l’opposizione al gasdotto Tap e renderla più insidiosa e generale. Anche perché tra i contrattisti non vi sono solo le più grandi multinazionali che si occupano di oil e gas come Eni, Saipem, British Petroleum, Snam e compagnia bella, ma anche aziende come Siemens, che si occupa di smart cities, Honeywell e Himachal che si occupano di fibre ottiche, robot, alta tecnologia.

Il collegamento necessario con la guerra è l’altro aspetto che permette di dare all’opposizione a Tap un respiro internazionale, che faccia guardare, ad esempio, a quelli che sono gli interessi di Eni nel mondo che, con la sua sottoposta Saipem, sta realizzando in Salento il pozzo di spinta, fase preliminare alla realizzazione del microtunnel. Oppure  permette di comprendere il peso geopolitico di un gasdotto che attraversa anche la Turchia con le sue mire espansionistiche e le sue responsabilità nel massacro dei Curdi.

Ma internazionalizzare può voler dire anche contribuire a rompere con la normalità del controllo, della sicurezza, di una vita irreggimentata. E ciò è possibile grazie al grande limite che una struttura sociale come quella in costruzione si porta dietro. La ramificazione degli apparati tecnologici è il punto debole del nuovo impero. La fantasia e l’imprevedibilità dell’azione possono essere ingredienti molto importanti in questo senso.

Questa può essere la differenza da cogliere per sottrarre linfa ed energia a questo mondo.

 

Tra insurrezione e rottura

Nel momento in cui una nocività, una devastazione ambientale incombono possono accadere molte cose. Può accadere che la protesta si generalizzi, che molte persone si coinvolgano e tentino di opporsi al nuovo mostro che si palesa davanti. E ciò è accaduto esattamente nel marzo 2017 in Salento, quando un fatto banalissimo, il blocco dei camion che trasportavano alberi espiantati da Tap per realizzare il cantiere, ad opera di otto manifestanti che si sono seduti per terra, è stata la scintilla che ha infiammato la protesta. Nelle settimane seguenti si è potuto sperimentare qualcosa di nuovo su un territorio da troppi anni sonnolento e immobile. Centinaia di persone si sono messe in mezzo in prima persona per bloccare i camion, per impedire a Tap di andare avanti con i lavori, affrontando la polizia, discutendo, riflettendo anche su altro e mettendo in moto la fantasia. La rabbia, per una volta, ha preso il sopravvento sulla vita mercificata e alienata. E in fondo, per chi scrive, non ha importanza se la motivazione principale sia stata la difesa della propria salute o della propria terra, la reazione per l’ennesima opera imposta o il legame con gli ulivi, espiantati a centinaia. Le possibilità che in una situazione di quel tipo potevano svilupparsi erano comunque un pericolo per l’ordine costituito che, naturalmente, ha cercato di far rientrare la situazione con i metodi classici della repressione e della criminalizzazione, fino ad arrivare alla istituzione di una zona rossa con cancellate e filo spinato, check-point e presenza massiccia di polizia.

Ma non è solo lo Stato ad essere intervenuto, ma anche decine e decine di militanti, riformisti, pacifisti e organizzatori di ogni specie che, alla spontaneità di una protesta, hanno cercato di dare una forma organizzata; all’orizzontalità dell’agire hanno sostituito lo specialismo. Tutto ciò, insieme ad altri elementi quali dissociazioni e inesperienza, hanno smorzato e forse affossato quell’occasione.

Infatti la realizzazione della zona rossa ha insinuato esattamente ciò che il Potere voleva insinuare. La paura verso ciò che viene considerato più forte, uno Stato con i suoi apparati di polizia che mostrano i muscoli e la rassegnazione verso un’opera ormai in fase di realizzazione.

La rabbia purtroppo non ha avuto la meglio e naturalmente il percorso è diventato tutto in salita.

Chi, però, ha sempre considerato il gasdotto Tap solo come una parte della sua opposizione non ha avuto di che mortificarsi. Se la rabbia è stata in parte accantonata e l’indifferenza ha preso il sopravvento, se le istituzioni e la multinazionale hanno alzato il tiro, dato l’interesse enorme che hanno nella realizzazione di questo gasdotto, niente in fondo è perduto.

Se Tap cerca di inserirsi nella società e se i più non la percepiscono come un problema, allora Tap diventerà un problema per tutti. È sotto questo auspicio che pensiamo sia necessario bloccare tutto e rompere la normalità che ci attanaglia. Ed è sotto quest’ottica che sabotare, bloccare, distruggere,  essere spine nel fianco, crediamo possa essere un metodo di intervento che si può estendere, contro Tap e contro questo mondo.

Alcuni nemici di Tap, maggio 2018

Articolo pubblicato su “L’urlo della terra” n. 6 luglio 2018

Dall’altra parte.

Contro il gasdotto TAP e i suoi sostenitori

La realizzazione di questo opuscolo mira esclusivamente a stimolare una
opposizione e una lotta tese a contrastare l’ennesima nocività che si intende far
passare, impunemente, sulle nostre teste. È un opuscolo assolutamente di parte,
voluto e realizzato da alcuni individui che, trovatisi di fronte all’imposizione di un
gasdotto da realizzare nel territorio in cui vivono, si sono schierati dall’altra parte
rispetto a tutti coloro che quell’opera vogliono realizzare: che si tratti di una
joint-venture di imprese multinazionali che risponde al nome di TAP (Trans
Adriatic Pipeline) come di partiti che sostengono la necessità di tale progetto;
che siano persone fisiche che intendano indorare la pillola – quali professori
universitari, giornalisti, esperti ed imprenditori di turno – oppure astratti
“interessi superiori” ad ogni singola persona, quali le necessità energetiche
dell’intera Unione Europea.

Copertina

Impaginato

 

L’Università del Salento collabora con Tap

Che Tap non sia solo un’infrastruttura energetica ma si porti dietro anche un’idea di mondo è stato ancora più chiaro nella giornata del 20 novembre, quando in un convegno organizzato all’interno dell’Università di Lecce erano presenti allo stesso tavolo parlamentari, dirigenti di Eni e Tap e feccia simile. Il convegno è stato interrotto a causa delle proteste all’interno e all’esterno della sala e molti si sono indignati per il ruolo dell’Università, palesemente schierata dalla parte dei potenti. Ma che l’Università non sia culla del libero pensiero ma fabbrica di tecnici per gestire questo mondo dovrebbe essere noto a tutti. Irreggimentati tra esami, debiti e crediti, agli studenti non resta più il tempo per riflettere, discutere, confrontarsi, contestare. Salvo in rare, sporadiche occasioni in cui la routine delle lezioni e degli appelli è interrotta da una presa di coscienza non rinviabile.

Tuttavia le università quotidianamente sono al servizio dei più potenti. Basti pensare al legame strettissimo che intercorre tra l’Università e la guerra, alla Ricerca finanziata a fini militari e di controllo, all’ingerenza che le grosse lobby hanno nelle università, al fine di indirizzare studi che abbiano valore scientifico incontestabile ma che di fatto servono al profitto di qualche multinazionale. E la stessa cosa si può dire dell’Università del Salento, che investe tutte le sue energie nel ramo delle nanotecnologie e dell’ingegneria. Ora l’Università del Salento collabora apertamente con Tap, aiutandola nel monitoraggio degli ulivi espiantati dalla multinazionale per realizzare il gasdotto, ospitando convegni i cui relatori sono stragisti come il country manager di Tap Michele Elia, e guerrafondai come dirigenti Eni, le cui responsabilità in Libia sono strettamente collegate alle morti in mare di migliaia di disperati. Infine, per voce di suoi docenti come Boero, difende l’indifendibile, intervenendo sui giornali per tranquillizzare sulla sicurezza e l’utilità del gasdotto e dare credibilità ad un’opera imposta e nociva che la gran parte delle persone non vuole.

Il signor Boero tra l’altro non può neanche dirsi super partes, avendo ricevuto degli incarichi remunerati direttamente da Tap negli anni, per tale motivo egli è semplicemente complice della devastazione che Tap vuole portare nei territori che attraverserà.

Ma se l’università non è più fucina di idee e agorà del pensiero critico, può sempre diventare un luogo di scontro: tra i costruttori di questo mondo di guerra e sfruttamento e i suoi demolitori.

E allora contro Tap, blocchiamo tutto!

Nemici di Tap     24/11/2017

università pdf

CONTRO TAP AGITIAMO L’IMMAGINAZIONE

Bloccare Tap non ci basta. Ciò che vogliamo è molto di più. Autogestire i nostri bisogni e i nostri spazi. Farla finita con chi produce profitto, devastazione e sfruttamento. Opporsi radicalmente a chi tutto questo lo impone. In poche parole farla finita con lo Stato e l’Economia.

Costretti nella nostra quotidianità, dalla culla alla bara, trascorriamo la nostra vita incatenati ad un bisogno di sopravvivenza e ad un ordine che irreggimenta. A tutto questo si aggiunge il ricatto e la paura. Infranto il sogno del lavoro che nobilita, la socialità è stata cancellata; il benessere acquisito si è allontanato sempre più e il desiderio delle merci ha reso schiavi di un mondo senza vita. Resta l’incertezza e la paura del diverso, di chi fanno credere essere il nostro nemico, così da distogliere da coloro che giocano a risiko sulle mappe dei luoghi che abitiamo. Si chiamano governi, si chiamano multinazionali e hanno dichiarato guerra a tutti gli esseri viventi, sé stessi esclusi.

E allora a noi non resta che l’immaginazione. Di una vita priva di autorità, di controllo, di sfruttamento, di gabbie. E l’immaginazione, se la si sperimenta, mette in risalto i sensi e fa prendere gusto. Vogliamo assaggiare, vogliamo provare, vogliamo incidere.

Bloccare Tap quindi per rompere molto altro. Per sottrarre linfa a chi vuole continuare a depredare risorse a questo mondo al fine di continuare a produrre merci e scatenare guerre.

Bloccare Tap per ricominciare a organizzarsi da sé e riappropriarsi dei saperi e del tempo.

Bloccare Tap perché siamo individui, unici, singolari, pensanti, consapevoli e vogliamo decidere della nostra esistenza.

Se ci costringessimo sotto un’unica bandiera, un unico slogan, un unico movimento la nostra battaglia sarebbe già stata tradita.

Bloccare Tap perché ciò che ci preme, ci ruba il sonno, ci spinge a lottare, in questa come in altre occasioni, in fondo è sempre lo stesso desiderio di libertà.

Nemici di Tap

2/10/2017

 

Lettera aperta al  dr. Giuseppe Serravezza

Egregio Dottor Serravezza [*],

questa nostra non è una lettera per elogiarLa, ma siamo certi che vorrà scusarci e capirà, avendo già schiere di ammiratori ed essendo riuscito a conquistare ulteriori simpatie per il suo impegno contro il gasdotto Tap che si vorrebbe realizzare nel Salento.

In effetti è proprio in merito a questo suo impegno che abbiamo deciso di scriverLe, ed in particolare in riferimento ad un Suo appello pubblico, in cui chiedeva a tutti i partiti e movimenti – da Casapound agli anarchici – di fare un piccolo passo indietro, nel nome di una battaglia comune contro Tap. Ora, a parte il fatto che in una lotta i passi da fare sono, secondo noi, sempre in avanti e mai indietro, la questione è anche un’altra, ben più importante. Perché a nostro avviso la lotta contro Tap non è, come Lei afferma, una lotta per la salvezza del territorio, dell’ambiente e della salute delle persone, bensì una lotta di libertà e per la libertà, e come tale non può essere portata avanti con coloro che della libertà sono nemici, come i fascisti di Casapound che Lei forse ammira e con i quali si è già trovato a collaborare in pubbliche iniziative, e come i democratici che Lei stesso rappresenta.

Vede, Dottore, i fascisti saranno anche disponibili a manifestare per la difesa dell’ambiente e del territorio, nel nome della loro lurida ideologia fondata su «sangue e suolo», ma si tratta delle stesse spregevoli persone che inneggiano all’eliminazione del diverso, alla caccia all’«uomo di colore», alle guerre nel nome di una presunta superiorità occidentale… Lei è disposto ad accettare tutto questo? Lei crede che le cose possano essere separate e si possano portare avanti delle lotte dividendole in compartimenti stagni? Noi crediamo di no.

Noi crediamo anzi che il suo pensiero, caro Dottore, sia dannoso, perché affermando che la lotta contro Tap è una lotta per la difesa del territorio, dell’ambiente e della salute, spalanca le porte ai fascisti che forse saranno suoi amici, ma di cui noi siamo irriducibili nemici.

Non solo; Lei spalanca la porta ad altri – come Lei – eminenti scienziati, che confutano le sue tesi sulla cancerogenicità delle emissioni del gasdotto, avallandone di fatto la costruzione. Lei ha permesso, caro Dottore, con i suoi scioperi della fame e della sete, il riaffermarsi della politica all’interno della protesta, una politica che era stata scavalcata dalla rabbia spontanea di centinaia di persone comuni; lo ha permesso incontrando sindaci, governatore di Puglia ed esponenti di Governo coi quali ha dialogato amorevolmente. Lei ha espresso l’idea di spostare altrove l’approdo del gasdotto, intendendo quindi devastare in un altro luogo il territorio e l’ambiente, e compromettere la salute di altre persone un po’ più in là. Lei, caro Dottore, ha assunto in una parola il ruolo del recuperatore, provando a mediare con la politica ciò che per noi non è mediabile: la nostra libertà.

Una libertà che non andrebbe sminuita e contenuta, bensì difesa e aumentata; una libertà che affonda le sue radici nei motivi profondi per cui opporsi al gasdotto, ad un’opera di colonialismo energetico che non si limita solo a devastare il giardino fuori dalle nostre case, ma è causa ed effetto di guerre sparse in giro per il mondo con tutto il loro corollario di morti, devastazioni, esodo di milioni di persone, annegamenti nei mari…

Opporsi al gasdotto Tap, egregio Dottore, significa volersi opporre a tutto ciò, e significa anche volersi opporre agli Stati che queste condizioni creano ed alimentano, agli Stati che impongono e difendono, manu militari, opere come Tap. Agli Stati che, proprio come i fascisti, sono nemici della libertà.

Per questo, caro Dottor Serravezza, se vuole collabori pure coi fascisti e con la politica, ma lo faccia sempre a titolo strettamente personale, e sia anche disposto ad affrontarne le conseguenze. Ad alcuni può anche bastare l’autorevolezza o il digiuno di un uomo per considerarlo proprio complice.

A noi no.

Cordiali saluti,

Nemici di Tap

[volantino distribuito a Melendugno in occasione di una iniziativa organizzata da Lega Italiana Lotta Tumori, Comitato No Tap e Terra Mia]

* Giuseppe Serravezza, oncologo, responsabile scientifico della LILT di Lecce, salito alla ribalta delle cronache per lo sciopero della fame e della sete intrapreso in segno di protesta contro la costruzione del gasdotto Tap.

 

AUTORGANIZZIAMOCI CONTRO TAP

Vorremmo dar vita a un momento assembleare e d’incontro settimanale per confrontarsi, discutere e organizzare iniziative concrete contro Tap e contro le nocività che stanno soffocando le nostre esistenze. Tap è solo l’ultima in ordine di arrivo ma l’elenco è purtroppo lungo.

Di sicuro c’è la voglia e la necessità di dirci contro poiché non ne possiamo più di vedere la natura devastata e sfruttata e non ne possiamo più di assistere a guerre per il gas e per l’energia. Non possiamo più sopportare morti in mare e sulla terra, in fuga dalla guerra o dalla miseria. Non abbiamo bisogno di più merci e nuovi dispositivi di controllo ma abbiamo bisogno di più dignità e libertà.

Ognuno a suo modo, ognuno secondo la sua sensibilità ma con l’unico obiettivo di non far passare Tap e tutto il modello economico e sociale che rappresenta.

Non in qualsiasi modo però. Vogliamo costruire uno spazio d’incontro autorganizzato e orizzontale, fuori dalle istituzioni, anche le più basse nel gradino della rappresentanza che fanno comunque parte (e ne devono rispettare i limiti) di uno Stato che si è schierato a fianco di Tap e ne è una sua costola.

Lontani mille miglia da autoritari di ogni risma che dividono il mondo in categorie da selezionare o da escludere (fascisti in primis) vogliamo agire in prima persona senza portavoce o rappresentanti vari.

Fuori da una logica mediatica per cui ciò che importa è ciò che dicono giornali e televisioni o addirittura Tap. Ciò che ci preme è relazionarci con esseri umani in carne ed ossa, parlarsi e agire insieme laddove è possibile.

Vogliamo essere uniti da un obiettivo comune senza dover rinunciare alle nostre differenze, alle nostre idee, alle nostre sensibilità, alle nostre pratiche. Ciò che ci incuriosisce in questo mondo è la pluralità e non l’omologazione.

Pensiamo che Tap non si trovi solo presso il cantiere di Melendugno ma che sempre più sarà ramificata in tutto il Salento e in tutto il mondo, avendo stretto contratti e collaborazioni con numerose ditte locali e non. Diffondere quindi un’opposizione e contrastare Tap ovunque si trovi, pensiamo possa essere una delle strade utili da perseguire senza perdere di vista ciò che accade nei luoghi maggiormente interessati dalla costruzione del gasdotto.

Non resta che incontrarsi e sperimentare.                                                                 maggio 2017

Proponiamo una prima iniziativa per

Venerdì 19 maggio ore 21, area cantiere Tap

Proiezione di “La messa delle cinque”

Film-documentario su una lotta antinucleare in Francia

CONTROTAP 1

 

UNA DOMANDA SORGE SPONTANEA

La costruzione del gasdotto sembra essere diventata una minaccia relativa, chi sta dietro TAP anche. Possiamo sentirci tranquilli, la situazione è sotto controllo, studiamo ogni mossa, siamo super-iper informati, e poi lo dicono anche i giornali che sono dei mafiosi!

Ad oggi di primaria importanza resta però il reimpianto degli ulivi… ma prima di questo, sicuramente l’immagine mediatica. Come appariamo alle persone che ci vedono da casa? Non vogliamo di certo considerarci responsabili della morte di questi esuli alberi azzoppati! E poi come si potrà far combaciare bene gli incartamenti comunali con le pratiche di resistenza sul territorio?

Quelle pietre divelte lungo la strada suscitano più disprezzo del deserto che si palesa all’interno delle cancellate create dalla multinazionale, della brutalità delle forze dell’ordine, della repressione esercitata attraverso i mezzi di comunicazione, delle decisioni con stretta di mano tra capi di governo che incitano alla guerra e all’annientamento della vita!

Siamo ancora agli inizi, alla fase 0 dei lavori TAP, ma pare già che il nemico sia stato perso di vista e che le motivazioni che animano le proteste si sfaldino per dar posto al prevalere dei singoli personalismi, che impongono scelte dettate non si sa bene da cosa. Nelle migliori delle ipotesi dalla paura delle denunce e dall’ingenuità di chi crede che una mediazione con TAP può essere accettabile, oppure a pensar male solo da comportamenti di esclusione e critica verso chi giunge da fuori, chi è considerato forestiero, o verso chi crede che ora è il momento opportuno per dimostrare tutta la nostra ostilità, senza dover fare nessun passo indietro!

Gli esiti di questi atteggiamenti sono tangibili nella pratica, nei momenti reali di opposizione, di fronte ad operai che continuano a lavorare indisturbati nella messa in sicurezza di un cantiere che darà prima o poi risultati concreti, i quali non si limitano al solo espianto degli ulivi ma alla realizzazione dell’intera opera. In molti momenti “l’attivismo” di alcuni si è rivolto con toni di pura castrazione e censura verso chi in modo del tutto individuale credeva che restare a guardare non bastasse a farlo sentire con la coscienza pulita, e che lo scopo di prendere parte al  presidio fosse innanzi tutto quello di contrastare ogni fase di questo infame progetto.

Senza soffermarsi sulle singole prese di posizione, chi reclama di lasciar lavorare in sicurezza gli operai, o chi pensa che non è il momento storico per erigere barricate, dimostrando che dal passato ha ben poco capito, forse non ha ben chiare le motivazioni concrete che portano ad essere presenti in quelle campagne, oppure ha solo dimenticato gli atti di forza subiti pochi giorni addietro! Se vogliamo continuare a gironzolare intorno al presidio nei momenti di pausa dalle stressanti ore lavorative va bene, questo però non deve prevalere o escludere l’iniziativa e le potenzialità pratiche di lotta.

Una domanda sorge spontanea: a cosa siamo pronti a rinunciare? Ad un gruzzolo di alberi ormai compromessi o alla nostra dignità? Nella seconda delle ipotesi continueremmo a mediare e a farci prendere in giro da pedine senza scrupoli di una multinazionale, facendo così solo il loro gioco!

 

PRENDIAMO ATTO

Prendiamo atto che, quando si indica la luna, lo stolto guarda il dito. Ci si indigna più per un muretto a secco usato per costruire una barricata che per alcuni ettari di terreno circondati da muri in cemento e grate in ferro, sorvegliati giorno e notte da guardie private armate pagate da chi vuole imporre con la forza una nocività, con capo della sicurezza un contractor con pregresse esperienze in operazioni militari negli scenari bellici in giro per il mondo.

Prendiamo atto che il Comitato No Tap continua instancabile la sua opera di dissociazione da qualunque atto autodeterminato di opposizione alla realizzazione del gasdotto, opera di dissociazione che prosegue da anni e contribuisce a restringere il campo nelle indagini di polizia e a indirizzarle.

Prendiamo atto che il Comitato No Tap, o alcuni suoi rappresentanti, scavalcano in maniera autoritaria le decisioni prese collettivamente nel Presidio sorto per contrastare l’opera di Tap. Tra queste decisioni, la realizzazione di barricate e l’allontanamento di Tele Norba.

Prendiamo atto che questo superamento delle decisioni collettive diventa – nei fatti – una forma di collaborazionismo con Tap, a cui il Comitato No Tap ha già permesso una volta, col pretesto dell’invasamento di alcuni alberi eradicati e abbandonati al suolo, di reinstallare e rinforzare le recinzioni e provare a portare via dal cantiere un grosso camion dotato di gru, bloccato solo dalla rabbia dei manifestanti. Nessun invaso degli ulivi peraltro è stato attuato in quella circostanza. Di queste forme di collaborazionismo, il Comitato No Tap, o alcuni suoi rappresentanti, dovranno assumersi la responsabilità e rendere conto quando – e se! –  l’opera avanzerà e sarà realizzata.

Prendiamo atto che il Comitato No Tap, o alcuni suoi rappresentanti, strumentalizzano la rabbia e la protesta spontanea e sincera dei molti oppositori che Tap ha incontrato in questi giorni, ai fini di una passerella mediatica in cui millantare meriti che non hanno nel blocco temporaneo dell’opera. Senza l’opposizione diretta di molti nel corso dell’espianto degli ulivi, questo sarebbe proseguito e terminato entro due giorni, tra sterili lamentele e con buona pace della burocrazia e della Legge di Ministeri, Tar, Corti Costituzionali, Regione e quant’altro; gli stessi enti, la stessa burocrazia e la stessa Legge che hanno avallato ed approvato il gasdotto Tap. Non intendiamo fungere da manovalanza per nessuno.

Prendiamo atto che il Presidio No Tap, per mezzo dei social media di cui si serve per la propria comunicazione, ha trasformato il suo nome in Movimento No Tap, pretendendo con questa autoproclamata definizione di rappresentare ed essere espressione di tutto il molteplice e variegato fronte dell’opposizione a Tap. Lo riteniamo scorretto, in quanto non ci sentiamo rappresentati da idee, pratiche, contenuti e comunicati che vorrebbero parlare a nome di tutti. Ognuno parla per sé.

Non può funzionare una situazione in cui, costantemente, c’è qualcuno che tenta di passare per buono agli occhi dei media, facendo passare altri per cattivi.

Non può funzionare una situazione in cui c’è chi invoca la repressione, come fatto dal comandante dei vigili di Melendugno, il quale intrattiene una strettissima relazione con il Comitato No Tap e, di conseguenza, anche con il Presidio, oltreché dalla presidente provinciale dell’Arci, Anna Caputo, che ha definito “vandali” alcuni manifestanti: le sue dichiarazioni sono spazzatura. Ecco, un personaggio simile, da sempre in grado di invocare manette e galera, è considerato parte del Movimento No Tap?

Non può funzionare una situazione in cui l’assemblea del Presidio No Tap è comunque succube delle indicazioni dello stesso comandante dei vigili e del Comitato No Tap, che persiste nella sua opera di persuasione fino a che non ha ottenuto il risultato che voleva, come permettere a Tap di entrare nel cantiere.

Non può funzionare una situazione in cui ci si permette di paragonare a Tap, coloro che fino a quel momento gli si sono opposti, solo perché il metodo usato, peraltro deciso in forma assembleare dal Presidio, non è condiviso. Quando qualche anno fa il Comitato No Tap si è seduto varie volte allo stesso tavolo di Tap, per discutere con questa, nessuno ha osato paragonarlo a Tap, nonostante la non condivisione del metodo collaborazionista del Comitato.

Si è volutamente alzato un polverone su un muro usato per una barricata, senza fare una minima riflessione sul perché quelle barricate sono state fatte: impedire o rallentare i camion che dovevano espiantare e permettere alle persone di accorrere davanti al cantiere. Si è usata la paura che le famiglie di Melendugno avrebbero provato nel vedere quelle barricate, le stesse famiglie che hanno portato i loro bambini davanti alla polizia per impedirle di passare, forse per nascondere la paura di chi vuole che tutto rimanga come sempre e torni nell’ambito della normalità. I blocchi stradali, i corpi che hanno impedito ai camion di passare e le barricate hanno rotto quella normalità, quella stessa normalità per cui i gasdotti si costruiscono e devastano la vita sociale e ambientale di un territorio.

Preso atto di tutto ciò, continueremo a portare avanti la nostra opposizione alla realizzazione del gasdotto Tap, come facciamo da diversi anni a questa parte, nei modi e nei tempi che più ci aggradano, autonomamente o con altri a seconda che i nostri percorsi e le nostre pratiche si intrecceranno con quelle altrui.

Ai tanti volenterosi, coraggiosi e determinati, con cui in questi brevi ma intensi giorni di lotta abbiamo condiviso le ore, diurne e notturne, le esperienze e le speranze, l’intreccio dei corpi durante le sedute di resistenza passiva e i progetti futuri, diciamo che siamo disponibili ad incontrarci, in maniera realmente orizzontale ed autogestita, per continuare a progettare e manifestare la nostra viscerale ostilità a chi vuole realizzare il gasdotto, a chi vuole imporlo, a chi lo difende e a tutti i suoi collaborazionisti.

Nemici di Tap

disordine@riseup.net

Melendugno (LE), 11 aprile 2017

 

 

LA GUERRA IN CASA

“Noi dobbiamo sgomberare l’area in ogni modo”. Queste le parole di un dirigente di polizia soprannominato “sicario”, di fronte a dei manifestanti seduti per terra che tentano di impedire ai camion di una subappaltata di Tap di uscire dal cantiere e portare via degli alberi d’ulivo, preludio di un inizio dei lavori per la realizzazione del gasdotto sulla sponda italiana. In questi giorni il vero volto dello Stato lo stanno conoscendo in tanti: manifestanti, singoli, addirittura sindaci con le fasce tricolori. Lo Stato, il suo Governo e il suo Parlamento passano sopra tutti quanti, non risparmiano proprio nessuno: la terra, gli alberi, le persone, le idee, il cuore, i corpi. Ciò che importa è tutelare la multinazionale Tap, di cui anche lo Stato italiano è parte, tramite Saipem e Snam, e consentirle di eseguire i lavori utili a costruire un’opera che nel Salento nessuno vuole e per le più svariate ragioni. E così lo Stato e lEconomia fanno vedere che cosa vuol dire essere in guerra, agire contro le popolazioni e i territori, ed è ciò che accade in ogni parte del mondo laddove gli interessi economici, il denaro, il profitto, lo sfruttamento delle risorse, della natura e delle persone sono la quotidianità.

In questi giorni ci sentiamo più vicini all’Iraq, all’Afghanistan, all’Azerbaijan, alla Nigeria, al North Dakota dove le risorse vengono depredate e i luoghi colonizzati. Ed è questo che è diventato il Salento ormai da decenni. Le nocività ambientali si aggiungono una a una, dall’affare Xylella che vuole favorire la trasformazione dell’agricoltura tradizionale in industriale, alle cosiddette energie rinnovabili, passando per Ilva e Cerano fino ai rifiuti tossici interrati da decenni nelle campagne salentine. Ora si aggiunge il gasdotto Tap il cui responsabile per la sicurezza, presente nel cantiere, è un contractor, un ex parà al soldo delle multinazionali in giro per il mondo. Un altro pezzo di guerra che ci deve far aprire gli occhi. L’autodeterminazione e la rabbia dimostrata in questi giorni da tanti individui che tentano di bloccare i mezzi di Tap, accerchiati da centinaia di uomini di forze di polizia, per impedire di espiantare gli alberi è una delle risposte che si potevano mettere in campo. Insieme al forte vento di tramontana, anche aneliti di vita e di sogno continuano a soffiare e le scintille attizzano il fuoco. No Tap no Stato no Capitalismo.

Nemici di Tap

 Volantino diffuso a Lecce durante una manifestazione no tap     2/4/2017

la guerra in casa pdf

ADESSO TOCCA A NOI

Il tempo della mediazione è finito.

L’avvio dei lavori di Tap, con il rafforzamento dell’area di cantiere dove dovrà essere realizzato il pozzo di spinta, e il dispiegamento di centinaia di forze dell’ordine, ha strappato il velo – nel caso ce ne fosse stato ancora bisogno – alle ultime illusioni di chi credeva che la via burocratica, istituzionale e giudiziaria, potessero realmente bloccare i lavori. Che questo genere di opposizione non potesse fermare un’opera gigantesca, che coinvolge più Stati e potentati economici fortissimi era chiaro fin dall’inizio, così come era chiaro che qualche amministrazione comunale e qualche ricorso in tribunale non potessero bloccare un’opera considerata “di interesse strategico nazionale”.

Ora che la Legge continua a schierarsi con se stessa, ora che le amministrazioni comunali dovranno riallinearsi alle direttive degli organi superiori e sono state richiamate all’ordine, mentre alcune di esse si sono buttate a raccogliere qualche briciola; ora che nessuna decarbonizzazione, suggerita per prima dalla Regione Puglia per distrarre l’attenzione, potrà fermare l’accumulo di energia di cui ha bisogno questo sistema per sorreggersi, non possiamo più farci illusioni. Non basterà più appellarsi alla sopravvivenza degli ulivi per fermare le ruspe difese da un apparato di vigilanza pubblico. Non servirà a nulla affermare che si deturperanno le coste e la natura per impietosire imprenditori che hanno il cuore a forma di salvadanai. Non avrà senso puntare sullo sviluppo del turismo per far ragionare affaristi e politici uniti da un unico interesse. Non sarà opportuno chiedere alla forze dell’ordine di intervenire a tutela dei cittadini: sarà lo Stato a chiedergli di tenere d’occhio i cittadini, esattamente come sta accadendo. Per qualunque Stato i veri nemici sono proprio i suoi abitanti quando diventano un ostacolo ai suoi profitti e al suo privilegio.

Alcuni mesi fa come oggi, una sola strada è rimasta percorribile: quella del nostro intervento diretto, a tutela del territorio che viviamo, della nostra salute, delle nostre vite e della nostra dignità. Metterci in mezzo in prima persona per bloccare un’opera inutile e nociva, ennesimo progetto di devastazione calato a forza sulle nostre teste per i soliti interessi di pochi. I lavori veri e propri sono appena partiti e, fino alla completa ultimazione, saranno ancora lunghi. Possiamo ancora fare tanto per bloccarli e rendere difficoltoso il loro progetto costruito sulla nostra sopraffazione.

Non ci resta che provare!

Nemici di Tap

16/03/2017

adesso tocca a noi

A chi non vuole il gasdotto

Del gasdotto che il consorzio TAP intende realizzare e far approdare a San Foca conosciamo ormai ogni dettaglio: lunghezza, profondità, quantità di gas trasportato, diametro e materiale dei tubi, percorso… ne parlano i media locali e nazionali, se ne discute al bar e nel salone dei barbieri, è argomento di discussione quotidiano tra gli oppositori, ma… come fare per fermarlo? Come intendiamo realmente opporci alla costruzione del gasdotto? Quali sono le pratiche che concretamente pensiamo di mettere in campo, quando inizieranno i lavori e anche prima? Sembra, questo, un interrogativo che nessuno si pone, un punto su cui non valga la pena riflettere, un dettaglio trascurabile…

È stata proprio la giornata di oggi a suggerirci l’interrogativo. Pensiamo che, domani, basterà un flash-mob di tamburelli a convincere TAP, coi suoi tecnici e operai, a interrompere i lavori? Difficile credere che il ritmo della pizzica terrà lontano gli scavi. O siamo forse convinti che basterà cliccare “Mi piace”, seduti comodamente a casa, e diventare amici virtuali, per essere in tanti ed impedire l’avanzata delle ruspe? O, ancora, crediamo salvifico aggrapparci ai politici locali a vario livello – sindaci, assessori regionali, parlamentari – per fermare un’opera che quella stessa politica ha dichiarato strategica per l’intera Unione Europea, o ci illudiamo che sia sufficiente apporre la propria firma su un pezzo di carta da esibire ai vari organi competenti perché tutto si risolva, dopo che l’esperienza ha ampiamente dimostrato quale sia l’opinione dello Stato sulla raccolta firme? L’esempio della centrale a carbone di Cerano, contro cui si era espresso il 98% della popolazione, basta a far cadere ogni illusione.

E allora – penserà qualcuno – non è possibile far nulla per opporsi?

Lontano da ogni forma di fatalismo, pensiamo fermamente il contrario, e vorremmo incontrare tutti coloro che non smettono di credere che sia possibile lottare contro il gasdotto, partendo da un unico punto fisso: che solo noi, in prima persona e senza delegare ad altri, possiamo metterci in mezzo tra il consorzio TAP e la realizzazione dell’impianto, secondo le forme che man mano sapremo decidere e mettere in campo. Manifestare, volantinare, contro-informare, bloccare, sono solo alcuni esempi; altri sono da scoprire e sperimentare insieme.

Ci rivolgiamo quindi a tutti coloro – singoli individui, pescatori, contadini, ecc. – che sono sinceramente arrabbiati per l’ennesimo sopruso e non sono più disposti ad accettare tacendo.

Alcuni nemici del gasdotto

Testo diffuso domenica 11 agosto a San Foca (LE), nel corso di una iniziativa organizzata dal Comitato NO TAP.  Agosto 2013

Alcune righe sul TAP

Un breve riassunto

Il gasdotto o metanodotto TAP (Trans Adriatic Pipeline) dovrebbe compiere un tragitto di circa 900 km, partendo dal Mar Caspio per approdare nel Salento, sulla riva di San Foca (Le), per trasportare gas naturale. A fine giugno il consorzio di Shah Deniz in Azerbajgian composto, tra gli altri, da British Petroleum, Total e Statoil ha fatto la sua scelta a favore del Tap, preferendolo al progetto Nabucco che avrebbe dovuto percorrere Romania, Bulgaria, Ungheria, Austria. Il progetto Tap, holding composta da Axpo (svizzera), E.On (tedesca), Statoil (norvegese), è stato considerato di interesse strategico dal governo italiano e dall’Unione Europea e andrà a servire il mercato europeo del gas.

Alcune domande

L’opposizione al Tap, o a una qualsiasi nocività, così come una lotta contro un carcere, costituisce la classica “lotta parziale”; parziale, per essere chiari, non in un’accezione negativa, ma nel senso di definire un aspetto particolare. Avere però un orizzonte allargato, in tutto quello che si fa e nelle lotte che si conducono, provare a individuare potere e autorità, di qualunque tipo, in ogni loro configurazione e tentare di opporsi ad esse è l’auspicio che ci si pone. La prospettiva dovrebbe essere alla base del proprio agire, un pensiero che ci accompagna costantemente, oltreché una modalità di approccio alle lotte. Quando ci si oppone alla guerra, alle nocività, a una galera, alla repressione, allo sfruttamento, all’autorità, alla morale, bisognerebbe tenere sempre a mente tutti questi aspetti e provare ad avere una visione di insieme. Un esempio: quando ci si oppone ad una centrale nucleare, ci si oppone alla nocività che essa rappresenta, alla distruzione ambientale irreversibile, ma ciò che si tiene a mente è anche l’uso che si farà di quella energia nucleare, il suo utilizzo per continuare a riprodurre un sistema economico-industriale di sfruttamento, o a perpetuare la vita super tecnologica e super controllata delle città a misura di merce piuttosto che a misura di uomo. Questo esempio, che può essere valido per molte altre fattispecie, pone un problema. Ci si può occupare di una lotta settorializzando, separando, differenziando?

Con lo stesso Tap sono state poste in campo varie questioni: dalla devastazione ambientale, alla guerra, alla depredazione delle risorse, al neocolonialismo capitalista, ecc; a ben vedere tutti discorsi strettamente collegati. Ma ciò che non è stato fatto, forse, è il tentativo di collegare questi aspetti da un punto di vista della prospettiva. L’opposizione al Tap è un’opposizione parziale di una più ampia che è quella allo Stato e all’economia: in una parola, al cosiddetto Dominio, che è poi quello che regola le nostre vite come quelle di miliardi di individui e a causa del quale siamo precarizzati, sfruttati, controllati, repressi, ecc. Ora, non si ha la pretesa che tutti quelli con cui ci si rapporta in una lotta, che siano compagni o gente qualsiasi, giusto per intenderci, abbiano questa impostazione, ma il nostro tentativo va in questa direzione perché quando si parla o si agisce contro lo sfruttamento, nei confronti della natura o delle persone, non lo si fa per un esercizio retorico, ma perché ciò che si auspica è l’esistenza di rapporti orizzontali tra gli individui e la fine, appunto, dello sfruttamento.

Alcune note sul metodo

Fatta tutta questa premessa, forse ovvia ma utile per provare a fare chiarezza, si giunge alla modalità di azione rispetto alla quale non ci sono preclusioni a rapportarsi con nessuno, purché ciò avvenga orizzontalmente e in maniera auto-organizzata. La logica istituzionale, partitica e di delega fanno parte del problema, per cui sono parte della nostra opposizione. Anche qui nel Salento si sono subito creati dei comitati contrari al gasdotto Tap, con la motivazione principale che quest’opera danneggerebbe la vocazione turistica del territorio, e da subito hanno messo in campo le solite modalità standard e istituzionali: delega al parlamentare di turno, raccolta firme, partecipazione a tavoli di discussione con Tap, cioè con la multinazionale che dovrà realizzare il gasdotto, manifestazioni auto-rappresentative, nel senso che spesso contengono solo lo striscione con la loro sigla, interviste a televisioni e giornali vari, contribuendo più alla spettacolarizzazione dell’opposizione che all’opposizione stessa; tanto più poi che anche televisioni e giornali fanno parte del problema. Ma tant’è, ognuno sceglie la sua strada e agisce di conseguenza. La cosa più importante è che quello non è il nostro modo di lottare e poiché l’opposizione al Tap interessa anche noi e ci coinvolge, e non solo perché si trova sul territorio dove abitiamo, la ricerca va verso un’altra modalità di intervento. L’errore che si compie, a nostro parere, è quello di pensare che quando si creano dei comitati, lì si possano trovare necessariamente dei complici per lottare insieme; potrebbe anche accadere, ma pensarlo in maniera automatica, come se fosse un dato di fatto, è un errore che fa perdere, tra l’altro, tempo ed energie. La lotta contro il TAV in Val Susa, a cui tutti si rifanno, ha probabilmente contribuito a creare questo equivoco, come se la lotta, importante, che si sta verificando lì da alcuni decenni sia riproducibile ovunque o sia l’unico modello attuabile. Spesso i comitati hanno una struttura e un modo di fare molto politico che poco si distanzia dal modo di fare istituzionale, e che non riusciamo a vedere perché abbagliati da una parvenza di azione dal basso.

Porre da subito sul piatto la nostra modalità di intervento, senza deleghe, senza politica e la nostra critica alle merci e all’esistente; cercare di trovare dei complici o degli interlocutori a partire da noi: questo è quanto sentiamo di mettere in campo per provare fin da subito a puntare in alto e a lottare contro una nocività, un gasdotto nella fattispecie, per agire contro questo esistente mortifero.Qui si pone però un’altra questione: ma se non trovassimo nessuno con cui portare avanti una lotta, che fare? La risposta dipende dalla discussione, dalla voglia e dalla rabbia che si mette in campo. Se si parte dall’idea espressa da un compagno, che potenzialmente ognuno di noi può cambiare le cose, allora ciò che bisogna aggiungere sono alcuni ingredienti: la determinazione, lo studio, la fantasia che possono a volte essere “armi” molto più forti e potenti di quanto non pensiamo. Anche in pochi, se determinati si può portare avanti una lotta, o almeno tentare di inceppare il meccanismo contro cui ci opponiamo. La logica del quantitativo invece porta a pensare che se non si è un numero sufficiente non si può fare nulla e questo costituisce una rinuncia e un’occasione in meno per portare avanti la nostra critica all’esistente. È chiaro che a volte può essere importante essere in tanti, perché si possono fare cose che da soli non è possibile fare, ma noi che non cerchiamo consenso, né ragioniamo necessariamente in termini organizzativi, abbiamo più libertà in questo senso.

Contro la delega

Qualcuno all’interno dei comitati, come sempre accade, è mosso da un’autentica intenzione di opposizione alle nocività, ma le sue modalità, raccolta firme o uso dei media sono antitetiche alle nostre. Tanto più che l’abitudine dei loro leader ad intervenire in ogni occasione, sentendosi i soli rappresentanti della lotta, per parlare per gli altri o dissociarsi da altri metodi non viene mai meno. È bastata una scritta “No Tap”, vergata da qualcuno sul muro di cinta di un golf club (che già di per sé costituisce una nocività, tenuto conto che per irrigare i suoi immensi prati si toglie l’acqua ai coltivatori vicini abbassando paurosamente la falda acquifera), che ospitava a porte chiuse e blindato dalle forze dell’ordine, un incontro tra membri del Tap e amministratori locali, per far scattare la delazione e la dissociazione. Ci chiediamo se quando arriveranno le ruspe a compiere i lavori questi simpatici attivisti dei comitati chiederanno leggi speciali e deportazione contro chi avrà voglia e rabbia per opporsi veramente. Attendere che i vari aderenti ai comitati si rendano conto che la raccolta firme o la delega al parlamentare non porteranno da nessuna parte è un’illusione, tanto più che delegare significa riprodurre, non ostacolare, questo sistema rappresentativo e autoritario. L’argomentazione, la critica e l’azione possono invece essere subito strumenti validi di opposizione, anche molto semplici e a portata di tutti, tenendo conto di quella prospettiva di cui si parlava all’inizio. Il Tap è solo un aspetto del Dominio, seppur molto grosso, ma ciò su cui ci interessa intervenire è anche il rapporto tra gli individui; ciò che ci interessa propagandare e agire è una modalità veramente orizzontale, auto-organizzata e dal basso. E se la lotta si riuscisse a condurre con queste modalità, magari coinvolgendo qualcuno o molti diversi da noi, allargando la critica all’autorità e mettendo in discussione almeno parte di questo esistente, allora si sarebbe agito in una buona direzione, anche a prescindere dal risultato finale della lotta contro una specifica nocività.

Una scintilla che si può propagare

Dal momento in cui il progetto Tap è stato scelto per la realizzazione del gasdotto, le varie istituzioni locali e nazionali hanno espresso la loro posizione. Alcune associazioni ambientaliste come Legambiente si sono sentite in dovere di esprimere il proprio parere positivo. Il governo italiano ha subito dichiarato il suo favore verso quest’opera, considerandola strategica per l’economia nazionale e iniziando a mistificare la realtà delle cose su ricaduta sul territorio, posti di lavoro e bollette più leggere. I politici locali e regionali invece, ad iniziare dal governatore Vendola e i suoi assessori, hanno iniziato a parlare di concertazione, negoziazione, confronto e dialogo necessario con le popolazioni locali, di coinvolgimento dei cittadini e dei comitati nella realizzazione dell’opera. Non è molto difficile comprendere che la loro idea di dialogo significa pacificare, evitare che lo sfavore verso quest’opera della gran parte degli abitanti del Salento, chi per interessi personali come operatore turistico, chi seriamente preoccupato dell’impatto ambientale, si trasformi in ostilità. L’opera si deve fare, si dice, ma è necessario che l’opposizione sia tenuta sotto controllo, che resti nel recinto democratico della raccolta firme e dei metodi legalitari, che si dia la parvenza della partecipazione anche mentre si subisce.  Che si mascheri l’imposizione di un progetto inutile e dannoso e che serve solo a far lucrare qualche multinazionale, dialogando con le amministrazioni locali, magari proponendo qualche serio vantaggio economico e monetario, cercando di convincere i cittadini della bontà dell’opera, ma soprattutto della sua inevitabilità. Il popolo è un bambino, direbbe qualcuno, e questo è il momento delle caramelle. Se ciò non basterà, la strategicità dell’opera potrà sempre portare alla sua militarizzazione. Ma questo discorso nasconde anche una paura, un punto debole per chi detiene il potere. L’opposizione ad una nocività può diventare una scintilla, un inizio, un fuoco che si propaga e mette in discussione molto altro. Un’occasione per opporsi in prima persona e fermare un mostro per poi fermarne molti altri, e tra questi anche la mentalità della delega. Dal lavoro, alla scuola, alla casa, al tempo libero, ai luoghi che abitiamo, pezzi di vita ci vengono sottratti e dei quali vogliamo riappropriarci mandando al diavolo i sostenitori del progresso e di questo mondo.

[Tairsìa, n°5, agosto 2013]