Recensione a “Nemici di ogni frontiera”, lotta ai Cpt nel Salento, ed. Anarchismo, 2019

“Un sasso gettato in uno stagno suscita onde concentriche che si allargano sulla superficie, coinvolgendo nel loro moto, a distanze diverse, con diversi effetti, la ninfea e la canna, la barchetta di carta e il galleggiante del pescatore. Oggetti che se ne stavano ciascuno per conto proprio, nella sua pace o nel suo sonno, sono come richiamati alla vita, obbligati a reagire, a entrare in rapporto tra di loro. Altri movimenti invisibili si propagano in profondità, in tutte le direzioni, mentre il sasso precipita smuovendo alghe, spaventando pesci, causando sempre nuove agitazioni molecolari. Quando poi tocca il fondo, sommuove la fanghiglia, urta gli oggetti che vi giacevano dimenticati, alcuni dei quali ora vengono dissepolti, altri ricoperti a turno dalla sabbia. Innumerevoli eventi, o microeventi, si succedono in un tempo brevissimo” .
G. Rodari, Grammatica della fantasia

A distanza di un lustro dalla sua pubblicazione, e di circa un ventennio dagli avvenimenti narrati, questo libretto va ad aggiungersi alla lunga lista di una certa categoria della pubblicistica anarchica: quella dei tentativi falliti.
A mio parere, infatti, la raccolta degli scritti contenuti voleva essere esattamente questo: un sasso gettato nello stagno, con l’intento di smuoverne un minimo le acque, provare a intorbidirle e incresparle; formare cerchi concentrici che si allargano sempre più, raggiungendo le sponde in tutte le direzioni possibili nella speranza che qualcuno, affascinato da quel movimento ondulatorio, lanciasse a sua volta altri sassi nello stagno, in un continuum che impedisse alle sue acque di tornare chete.
Il libretto raccoglie una considerevole quantità di scritti – volantini, manifesti, dichiarazioni in
tribunale, ecc. –, spesso accompagnati dal riferimento della circostanza in cui, o per cui, sono stati elaborati, attraverso i quali si può ripercorrere piuttosto agevolmente il percorso di lotta portato avanti contro il primo centro di internamento per immigrati senza documenti istituito in Italia: il famigerato “Regina Pacis”, il cui direttore era il non meno famigerato don Cesare Lodeserto, prete, aguzzino, picchiatore. Dagli ultimi testi apprendiamo peraltro che ora dovrebbe svolgere il suo caritatevole ruolo in Moldavia, “in missione per conto di Dio”, ed alla luce del conflitto russo ucraino e del conseguente esodo di profughi anche in quella nazione, possiamo ipotizzare che stia continuando a dispensare accoglienza anche in quei luoghi, forte dell’esperienza maturata sul campo nel Salento…
Dalla lettura degli scritti, raccolti in ordine temporale, traspare bene un altro aspetto. La
consapevolezza di coloro che hanno portato avanti quella lotta, che dai primi scritti di critica si fa via via sempre più serrata e puntuale, sintomo di una maggiore capacità di analisi e riflessione che pare conseguenza di approfondimento, discussione e confronto costante nel corso dell’avanzare della lotta stessa. Di pari passo pare crescere la determinazione nell’attacco, inteso in senso ampio, frutto di una raccolta di informazioni puntuale e minuziosa su tutto il meccanismo che gravita attorno alla gestione del centro; una determinazione che ha portato in un lasso di tempo relativamente breve – parliamo di circa tre anni – un manipolo di compagni ad essere sempre presenti, costante spina nel fianco per coloro che contribuivano al funzionamento del centro: istituzioni, gestori, politici.
Ma perché la pubblicazione di questo libretto rappresenterebbe un tentativo fallito? In fondo le
lotte contro i centri di internamento per immigrati senza documenti, in tutte le loro evoluzioni
linguistiche – Cpt, Cie, Cpr –, in questi venti anni ci sono sempre state, grazie all’impegno e al
coraggio di tanti compagni e, seppure tra alti e bassi, tra periodi di stallo e picchi di conflittualità anche piuttosto alti, l’attenzione rivolta a questi luoghi di reclusione non è mai venuta meno.
Quello che si è verificato, però, ed in questo senso tra le righe di questo opuscolo bisognerebbe
trovare degli spunti, è stato lo sclerotizzarsi di un certo modo di impostare l’opposizione, che pare non si riesca a scardinare. La continua riproposizione di uno schema fisso, per quanto collaudato, su cui ci si adagia, ma che chiude gli spazi a qualsiasi tentativo nuovo, ancora da inventare, e di conseguenza anche a qualunque nuovo sforzo d’immaginazione.
L’aspetto che pare trasparire dagli scritti contenuti nel libretto è quello di una lotta assolutamente non votata all’attivismo, bensì impostata a ostacolare il funzionamento del centro di internamento prima, e puntare alla sua chiusura successivamente. Una proposta chiara, accompagnata da tenacia e determinazione costanti, e non dall’intervento sporadico e altalenante in occasione di episodi più o meno gravi quali possono essere una rivolta, un’evasione, uno sciopero della fame o degli atti di autolesionismo che si verificano all’interno della struttura. La consapevolezza, invece, che è la stessa esistenza di un luogo di detenzione che dovrebbe spingere a battersi per la libertà. Ma tutto ciò ancora non basterebbe, perché lottare esclusivamente contro una struttura specifica del dominio, senza connettere la sua esistenza a tutto il restante meccanismo di sopraffazione e controllo, sarebbe lotta e critica esclusivamente parziale, incapace di chiarificare esattamente il ruolo che ogni singolo tassello assume all’interno del puzzle totalitario; ecco perché in tanti dei discorsi affrontati dai Nemici di ogni frontiera in quegli anni il ruolo del Cpt è legato ai discorsi sulla guerra, sulla spoliazione dei territori, sul ricatto della manodopera e sulla schiavitù salariale
immigrata tanto quanto autoctona –; ecco perché trattano di controllo sociale e repressione,
traendone le ovvie conseguenze: lottare contro un centro di reclusione per immigrati significa
anche lottare contro lo Stato e il capitalismo, e non si possono debellare completamente i primi
senza distruggere i secondi.
Da alcuni anni questo aspetto sembra essere un po’ perso di vista, e quello che si cerca di fare, un po’ su tutto il territorio nazionale, è stabilire un contatto continuo ed assiduo con coloro che si vivono la situazione di reclusione, nella speranza che un rapporto diretto ci dia la forza e il coraggio di muoverci, oppure ci fornisca informazioni che sembra non si sia più capaci di raccogliere autonomamente. Ma abbiamo davvero bisogno di ciò per attivarci in maniera costante ed incisiva?
Quantomeno per gli anarchici, è necessario sapere che i pasti vengono imbottiti di psicofarmaci, oppure che qualcuno venga picchiato o ci siano casi di autolesionismo o tentativi di fuga per avvertire l’impeto di agire? E poi, quando anche si stabiliscano dei contatti, cosa possiamo fare noi realmente per chi è recluso? Certo, possiamo portare fuori la loro voce, ma a meno che non si sia in grado di organizzare un’evasione, poco cambia per la loro condizione. Il loro scopo, assolutamente legittimo, è uscire dal centro ed evitare il rimpatrio, ed allora forse più di noi possono fare gli avvocati o un giornalista che riscontra una qualche stortura particolarmente eclatante, oppure ancora qualche associazione che si occupa di diritti umani e simili falsità democratiche. Ma gli anarchici non possono e non devono sostituirsi a queste figure, sia per non rischiare di intraprendere un lavoro di peloso umanitarismo, che per non trasformarsi o sostituirsi a gente che, peraltro, combattono e disprezzano.
L’idea anarchica, in fondo, è un’idea semplice, un’idea di libertà, ed è perseverando nella ricerca di questa idea che possiamo tentare di elaborarne di nuove, sviluppando nuove pratiche per avanzare verso di essa; intraprendere la via del soccorso umanitario, per quanto sia umanamente comprensibile, rischia invece di lasciarci legare dalla frustrazione quando non raggiungiamo i nostri obiettivi, e legati si avanza difficilmente verso la libertà. Connettere tra loro quei fili che uniscono l’aspetto particolare della detenzione amministrativa a quello generale della lotta contro lo Stato permette di distanziarci dai gruppi di democratici che criticano quei posti solo per i loro aspetti inumani e “illegali”, ma permette anche di fare un discorso esclusivamente “nostro”, anarchico. Molto più ampio, e forse anche molto più difficile da affrontare e veicolare, ma che lascia anche aperto un ventaglio di possibilità di intervento, per alcuni aspetti, decisamente maggiore.
Ecco, a mio avviso, quale è stata la differente qualità dell’esperienza che racconta questo libro.
Perché, come è scritto nell’introduzione le strade percorse “sono state molteplici. Molteplici, ma non contraddittorie, in quanto orientate da quelle convinzioni che servivano a illuminare il
nostro cammino: l’autogestione della lotta, la conflittualità permanente e l’attacco diretto […]
consapevoli che ciò che andava ad incidere sulla lotta era esclusivamente il suo aspetto
qualitativo, e non già quello quantitativo.
[…] Nonostante la mancanza di rapporti, se non sporadici, tra noi fuori e loro dentro, ciò non ha impedito che si sviluppasse una lotta comune. Comune, non una lotta assieme, perché non c’è dubbio che i fastidi che si progettavano e concretizzavano fuori andavano inevitabilmente a
dialogare con le rivolte e le evasioni che si realizzavano dentro. In un non combinato dialogo a
distanza, i fili delle lotte si annodavano, andando a comporre una unica e più estesa opposizione al centro”.
Abbandonare i percorsi conosciuti e provare a segnare nuovi sentieri, tentando di elaborarne il
tracciato quando, seduti a bordo dello stagno, siamo soli con noi stessi, con la nostra rabbia e la nostra frustrazione. Questa è forse la via da tentare, in ogni lotta, quando la strada battuta ci porta in un vicolo cieco. Ricominciare daccapo aprendosi alla fantasia; lanciare nuovi sassi nello stagno e lasciarsi trasportare dalle sue increspature, alla ricerca del non noto.
Il Cpt “Regina Pacis” ha chiuso i battenti nel 2005, mentre molti altri venivano aperti su tutto il territorio nazionale e continuano a proliferare, frutto di politiche del contenimento dei flussi
migratori che sono rimaste pressoché identiche con l’alternarsi dei Governi di diverso colore. E
allora pare già di sentire l’eco del solito intelligentone realista: quindi perché battersi per chiuderlo, se tanto poi ne riaprono un altro? Mi piace rispondere con le parole di un caro compagno, scritte a proposito di tralicci abbattuti.
«Ma poi, non li ricostruiscono? Obiezione immancabile, che ho sentito mille volte.
Certo che ricostruiscono puntualmente tutti i tralicci dell’alta tensione abbattuti, e lo stesso per
gli altri obiettivi raggiunti dalla rabbia e dalla fredda decisione di sabotare il capitale nelle sue
strutture, se non altro visibili. Ma l’obiezione fiorisce subito sulla bocca degli sciocchi che
guardano sempre il cielo prima di uscire per paura di bagnarsi».
Telamone

Tratto da “Inattuale n. 2, agosto 2024”

Questa voce è stata pubblicata in General. Contrassegna il permalink.