“L’esercito combatte”, è il titolo delle giornate in ricordo della prima guerra mondiale che partono da Lecce il 21 maggio per spostarsi poi in altre città italiane.
Questo ennesimo tentativo di presentare guerra, soldati e armi da guerra come innocui e tutto sommato divertenti, impressiona e disturba profondamente.
La prima guerra mondiale che si intende ricordare è stata un massacro terrificante di generazioni intere di cui non c’è davvero nulla da esaltare, anzi, l’unico suggerimento che può dare è quanto faccia schifo combattere per la patria e quanto la patria, o l’economia ai nostri tempi, consideri meri numeri coloro che manda al fronte e mere variabili le conseguenze che possono derivare: case, ospedali, civili bombardati: i cosiddetti effetti collaterali. Oggi le guerre sono sempre più tecnologiche, ma allo stesso modo producono morti e distruzione. Non esiste alcun valore positivo da attribuire ad una macchina di morte o ad un soldato: sono solo strumenti nelle mani di chi intende accaparrarsi risorse, gestire un’area nel mondo, accrescere la propria egemonia. La patria e il nazionalismo sono, a volte, gli appigli ideologici per far nascere conflitti. Ma è di fatto l’Economia a utilizzare la guerra come mezzo di ristrutturazione o profitto. Se il crescente nazionalismo dei primi del Novecento ha portato ad una guerra mondiale, tragica e sanguinosa, oggi, allo stesso modo, si innalzano muri e barriere e si militarizzano le frontiere. La guerra dichiarata è contro i più poveri, gli erranti, coloro per i quali l’Economia e gli Stati hanno deciso che non esiste più un posto nel mondo.
Le giornate come quelle in programma vogliono insinuare la normalità della presenza militare, nelle città come nelle strade. Una logica militare gerarchica e oppressiva viene presentata come un modello eroico da ammirare. Si diffonde l’idea che il mestiere del soldato non sia fare la guerra, e quindi ammazzare, ma aiutare la gente. Un aiuto che si è potuto vedere all’opera sempre più spesso, dalle torture e gli stupri in Somalia nel ’93, alle sevizie ad Abu Ghraib, all’“annichilimento” di Falluja, dove si massacravano uomini e donne ridendo e divertendosi. E mentre si prepara un’imminente operazione in Libia, cercano di far passare il messaggio che questa sia indispensabile per combattere lo Stato Islamico che commette attentati in Europa. Ma quegli attentati e quei morti sono il frutto di un ennesimo esercito e di un ennesimo Stato – seppure islamici –, oltreché l’effetto nefasto di una guerra che torna indietro; la conseguenza velenosa delle innumerevoli guerre che l’Occidente ha combattuto in tutto il mondo nell’ultimo quarto di secolo, fomentando l’odio nel cuore di molti che le hanno subite.
Disertare questo genere di manifestazioni è il primo passo per disertare una mentalità militarista che sempre più vogliono inculcarci, per tornare a gridare con forza: soldati assassini, guerre infami.
Antimilitaristi
(Volantino diffuso a Lecce)
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