Quando ieri (o forse l’altro ieri?) il primario, con un viso solenne e naturalmente senza che dalla sua bocca fossero uscite parole-tabù quali «pericolo» o addirittura «morire», mi spiegò il timore che non mi rendessi conto della «serietà» della mia condizione e che tuttavia (perché poi «tuttavia»?) si sentiva obbligato a richiamare la mia attenzione su di essa – dopotutto mi trovavo nel reparto di terapia intensiva -, io scrollai la testa e lo rassicurai che non ero io a non capire, ma che era al contrario lui che non mi capiva, e che non doveva certo sforzarsi di farlo perché capire una cosa del genere non era previsto dalla sua professione. Era troppo profondamente sconcertato per potersi subito indignare. «Che cosa intendete dire?», domandò. «Che invischiarmi in una simile perdita di tempo», risposi io, «come l’esser-morti, contraddirebbe il mio stile di vita. E che gli obbiettivi che devo ancora raggiungere, e che perciò non finiscono di tormentarmi, sono troppo importanti, e non ci sarebbe nessun altro che potrebbe scrivere i miei libri al posto mio ( e per di più la stesura di questi testi sarebbe per me davvero troppo divertente)». A quel punto si diede un colpetto sulla fronte. La mia irrispettosa qualificazione dell’esser-morti – che in fin dei conti, come lui voleva lasciar intendere, apparteneva esclusivamente al suo ambito professionale e certamente non al mio, inferiore -, come «perdita di tempo», gli sembrava non solo un’insolenza, ma addirittura un segno di confusione mentale. Ad ogni modo egli, subito dopo, si girò ostentatamente verso il giovane egiziano del letto accanto che diversamente da me «faceva il bravo», cioè sembrava morire volentieri o quantomeno aveva fatto del suo dover-comunque-morire un lavoro full-time che svolgeva con gran sollecitudine fin dal primo mattino. Naturalmente con lui il primario ebbe maggiori chance di venire riconosciuto nella sua monopolistica autorità.
Gunther Anders, Brevi scritti sulla fine dell’uomo