Come dice il poeta:
Datemi cuori ardenti,
che mai si perdano nel dubbio,
ma nella vittoria e nella sconfitta
conservino invulnerabile il sorriso.*
Cuori ardenti. A chi interessano più i cuori, ormai? E i poeti? Sì, certo, ha bisogno di un cuore sano e ben allenato l’efficiente pilota di bombardieri che si inerpica lassù nel cielo con il suo carico di morte, ed è evidente che chi si appresta, con il gentile supporto della mitragliatrice, a infilare piccole pallottole di piombo nel petto e nello stomaco altrui, non può essere dotato di uno strumento debole, lì in alto a sinistra, nel suo corpo. Ma ardente? No, amico mio, in tal caso saresti stato scartato alla visita medica come un mezzo cadavere e poi solo per sentito dire avresti conosciuto dall’interno il cratere aperto da una granata, la crudele realtà di bombardieri dentro alle nuvole spumose, o il piccolo – o forse non tanto piccolo – inferno sul ponte di una nave quando l’acciaio di mostri nemici gioca alla falce della morte, sbreccia le silhouette e si avvicina sempre più a tutto ciò che vive a bordo.
E pensi come sarebbe andata, cara signorina Johansson, se lei, sì, proprio lei, avesse avuto un piccolo cuore ardente lì, sotto il fresco rigonfiamento della camicetta. Forse non sarebbe riuscita a starsene seduta com’è adesso, con la fronte graziosamente corrugata, intenta a stenografare così impeccabilmente sul suo block notes a quadretti quanto le dice il Signor Direttore. Forse non sarebbe nemmeno qui, signorina Johansson. Forse le cose sarebbero andate altrimenti. Chissà, chissà. I cuori ardenti sono talmente imprevedibili. Forse è meglio così. Forse è meglio che il suo cuore si sia raffreddato per tempo, signor bombardiere, signor soldato tuttofare, e anche il suo, piccola signorina con la cartella. Del resto ci sono tante altre cose che bruciano, anche se il cuore si è spento.
Eppure, eppure una piccola obiezione tenta con cautela di emergere dall’oscurità compiaciuta, eppure un orologio ticchetta, o forse non è un orologio: un battito deciso e regolare nel silenzio urlante. Zitto, hai sentito? Mitragliatrici? No, qualcosa di più forte del loro rullo crepitante. No, niente di simile. Rombi di cannoni, macchine da scrivere, slogan di altoparlanti, sirene di ambulanza? No. E allora non restano altre possibilità. Ma no, pensaci bene, pensaci: se fosse quello, sì proprio quella bizzarria di cui parlano i poeti e tacciono tutti gli altri. Pensi, signorina Johansson, e tutti quanti voi, se tra il frastuono della guerra e il chiasso delle piazze si levasse un giorno un piccolo suono argentino, flautato, con un messaggio proprio per le vostre orecchie, le vostre piccole orecchie, sì, proprio per voi, voi, te. Già, tutto può succedere, forse una notte la malconcia luna della poesia, fissando con il suo occhio freddo le Fiandre smarrite, illuminerà un fuoco che non scalderà solo dita intorpidite, piedi congelati nei rigidi stivali e corpi intirizziti nelle giubbe militari. No, non un fuoco da campo acceso da partigiani infreddoliti in una delle grandi foreste della guerra, non un falò alimentato da pali spezzati di un recinto o di una staccionata, ma un fuoco di fiamme impetuose e costanti, destinato a durare e capace di ridare il calore della vita ai corpi congelati come ai cuori freddi. Forse un giorno il primo cuore si accenderà, anzi, forse si è già acceso, forse i cuori ardono già nel gelo dei fronti, nella corazza di un sottomarino o dietro il filo spinato di un campo di prigionia, sotto una solitaria luna fiamminga. Già, chissà. Forse un giorno il poeta li avrà i suoi cuori ardenti. Forse li avrà il mondo. Sì, il mondo avrà bisogno di cuori ardenti come di stelle luminose e di giovani corpi vigorosi e intatti, quando il tempo della guerra sarà finito e verrà la pace. Giovani cuori, giovani menti, giovani corpi renderanno di nuovo giovane il mondo.
«I teologi parlano e cercano di farsi capire nel frastuono del fuoco di sbarramento, tra i cingoli della guerra che avanzano inesorabili. E noi, i giovani, ascoltiamo, e cerchiamo di salvaguardare quei valori che consideravamo i più alti, li difendiamo con le nostre parole, ci mettono in mano armi perché possiamo batterci per essi. E ci ritroviamo con il nostro amore per il prossimo e per tutto ciò che è vivo, il cielo è azzurro e alto, la rugiada brilla sull’erba dei prati. Ma la nostra vista è annebbiata dal bordo di un elmetto, grigio come una tempesta d’autunno, non vediamo i fiori dei prati né gli uccelli, perché cerchiamo di individuare il nostro prossimo attraverso un mirino, per poter aprire un foro in quella meraviglia che è un petto vivo, un cuore pulsante». Questo scriveva tempo fa un ragazzo, un amico, su una rivista giovanile. Era un liceale svedese cui erano stati risparmiati, se non l’elmetto d’acciaio, almeno gli esercizi con la baionetta e le raffiche di spari contro bersagli umani vivi.
Molte altre cose ci sono state risparmiate. A noi non è capitato che di colpo sulle scale risuonassero passi di stivali, e pugni di ferro bussassero con violenza alla nostra porta e soldati stranieri dalla voce dura ci tirassero giù dal letto per trascinarci alle camionette in attesa. E non ci è capitato che mani brutali ci spingessero in celle anguste dalle porte pesanti e i muri spessi, né ci obbligassero a passare nelle camere di tortura, abbiamo ancora tutte le nostre unghie e nessun segno di frustate ci lacera la schiena. E non uno di noi, neppure uno, è stato portato via nell’ora nebbiosa dell’alba, messo di fronte al plotone d’esecuzione e riempito di piombo. No, noi siamo fortunati, o per lo meno ci è andata bene, forse troppo bene. Forse non siamo neppure in grado di apprezzare il nostro destino tranquillo. Forse abbiamo addirittura appreso con una certa freddezza i resoconti delle sofferenze altrui, abbiamo scorso con sguardo indifferente le notizie e pensato: Sì, certo, è orribile, ma non mi riguarda, non è a me che tocca.
No, non è a te che tocca, e tuttavia tocca anche a te. Sei tu a essere stato inseguito per le vie di Oslo da poliziotti armati, è alla tua vita che mirano ed è la tua casa che sorvegliano. Tu e la tua esistenza perché… Perché? Be’, perché hai un cuore, certo che ce l’hai. E perché sei giovane, certo che lo sei. E perché presto tornerà la luce, sicuro che tornerà. Ecco, per tutte queste ragioni, il cuore, la giovinezza e la luce, viviamo nella nostra sicurezza la vita dei perseguitati e aspettiamo con tutto l’ardore della nostra anima il giorno in cui i cuori si infiammeranno, in cui saranno gli stessi cuori ad ardere al di là di tutte le frontiere. Quel giorno il poeta li avrà i suoi cuori ardenti, su cui il dubbio non avrà alcun potere, e che affronteranno la sconfitta con lo stesso invulnerabile sorriso della vittoria finale. Quel giorno verrà, verrà presto. Lo sappiamo. Lo sentiamo nei nostri cuori. I nostri cuori ardenti.
Stig Dagerman, Storm, dicembre 1943
* Rudolf Nilsen (1901-1929), Revolusjonens røst (La voce della rivoluzione)