Fra i decreti più rivoluzionari della moderna storia di Usalia si annovera quello mediante il quale la polizia veniva incaricata di assolvere tutti i doveri della malavita, e nel contempo anche i doveri della giustizia. Naturalmente l’accorpamento di questi tre rami d’attività evitava quegli inenarrabili sforzi che stanare, indagare, e condannare i colpevoli, avevano procurato in passato, per non parlare dei milioni di denaro pubblico che tutto questo era costato. La ricerca dei colpevoli aveva lasciato il posto a un obiettivo più urgente, ufficialmente definito «libera persecuzione» del potere esecutivo. Con tale espressione, che certo testimonia l’importanza della libertà nella Usalia dell’epoca, s’intendeva dire che spettava all’esecutivo, o meglio ancora all’establishment al suo interno, stabilire chi di volta in volta dovesse essere considerato colpevole – e spesso la cosa avveniva addirittura prima che il reato venisse commesso, poiché molte volte il potere esecutivo deliberava non soltanto quale persona, ma anche quale reato si dovesse compiere. E il crimine non doveva essere per forza commesso sempre dal colpevole designato: l’esecutivo in molti casi preferiva all’ultimo momento realizzare da sé l’azione delittuosa. Il significato di «libera persecuzione» implicava però che il colpevole designato aveva l’obbligo di presentarsi davanti ai contemporanei e ai posteri come colui il quale, cosa che naturalmente includeva lo scontare la pena per il suo crimine.
L’ordine che, con l’accorpamento dei tre settori, si diffuse in breve tempo in Usalia, sortì effetti strabilianti: mai, prima, politica, amministrazione e giustizia avevano collaborato senza attrito, niente veniva più abbandonato al caso, tutto si svolgeva secondo precisi programmi e tutti eseguivano gli atti previsti dalle delibere. Già dopo poco tempo diventò una consuetudine individuare gli attentatori (e naturalmente i loro vendicatori, altrimenti detti giustizieri) prima ancora che gli stessi rei – alla stampa venivano comunicati anche i loro nomi – potessero intuire che fosse imminente un qualsiasi reato, o tanto meno che erano stati prescelti per essere considerati e scontare così il loro crimine. E non di rado capitava addirittura che i malfattori patissero la pena di morte senza aver saputo prima di quale presunto misfatto fossero accusati. «Nessuno», si dice sia un principio del codice usalico, «nessuno ha il diritto di conoscere la propria ingiustizia». Può darsi benissimo che per il volgo, talvolta, tutto ciò possa essere stato amaro – quanto più dolce è il dover morire, se si sapesse per quale motivo si muore – ma la classe dirigente considerava questa istituzione come una vera e propria benedizione.
Perché grazie ad essa, infatti, erano solo questi concittadini plebei a cadere vittime del crimine, e dato che il loro decesso risultava ben gradito al potere esecutivo – o, meglio ancora, all’establishment, e dato che valeva lo stesso gradimento per le condanne inflitte a chi aveva o meno eseguito il crimine, questa istituzione era certo il risultato di un interminabile processo di autocorrezione della società usalica.
Del resto nel sistema è insita – non occorre affatto nasconderlo – anche una certa comicità. E per il seguente motivo: perché – come tutti potranno facilmente intendere, bisognava che in ogni singolo caso morissero due uomini, uno in quanto vittima e uno in quanto assassino, benché il più delle volte non importava come si dovevano assegnare i ruoli di vittima e reo, se far uccidere il signor A tramite il signor B e doveva far pagare per quest’omicidio il signor B, oppure l’opposto. È stato tramandato, e in modo attendibile, che talora i poliziotti usalici, poco prima di un attentato, fissato già da tempo, e definito in tutti gli altri minimi particolari, non avessero ancora stabilito a quale dei due morti «annunciati» assegnare il ruolo di vittima e a quale il ruolo di criminale; e che avessero trovato la risposta all’ultimissimo momento con un tiro di dadi.
Günther Anders, Lo sguardo dalla torre [1968]