La “complessità” come realtà e come alibi
Vorrei terminare con due osservazioni. La prima riguarda la complessità della questione che ho tentato di porre. Dicendo questo, penso in particolare al caso dei paesi in via di sviluppo – e per esempio a questa dichiarazione fatta qualche anno fa da M.Roche, presidente del Consiglio nazionale di ricerca scientifica e tecnica del Venezuela:
“Il novanta per cento della popolazione mondiale desidera ancora appassionatamente la scienza al fine di utilizzarla come una fonte di benessere umano; noi desideriamo perfino l’inquinamento, perché vi vediamo un segno certo di prosperità”.
Tesi di questo tipo ( e problemi di questo tipo…) richiedono di essere considerati con attenzione, anche se non è poi così semplice che la “scienza” sia il rimedio universale, perché vi è in gioco la sopravvivenza stessa di certi gruppi di uomini. Dal momento che la “scienza” appare in grado di risolvere alcune questioni assolutamente urgenti, sarebbe stupido non tenerne conto. Tuttavia, anche per quanto riguarda il terzo mondo, niente ci dice che il ricorso sistematico (e, oserei dire, cieco) alla “scienza” costituisca la sola o la miglior risorsa. Sembra proprio che un certo neocolonialismo sciento-tecnocratico, in diversi casi, sia stato impotente, se non addirittura nocivo. E che le soluzioni meno “occidentali” ma più adatte siano state frequentemente (e presuntuosamente) trascurate. Se le cose stessero così, ne risulterebbe che l’ottimismo e il militarismo scientisti potrebbero e dovrebbero, ancora una volta, essere rimessi in discussione.
Comunque sia, il mio proposito non era di parlare della “scienza” nei paesi in via di sviluppo, ma in quelli in cui essa sta conoscendo l’espansione che ben conosciamo. Anche qui, la situazione non è semplice. Per cercare di descriverla e di valutarla, ho ovviamente fatto delle scelte e privilegiato certe interpretazioni. Detto altrimenti, io stesso ho proceduto a delle semplificazioni; semplificazioni che il lettore critico potrà trovare ugualmente illecite (o ancora più illecite) di quelle di cui si rende colpevole la “scienza”…Ma questa simmetria astratta, ritengo, non dovrebbe far dimenticare un’asimettria molto più concreta e molto più fondamentale. Quella che riguarda le forze a confronto. Perché ammettiamolo: qualunque discorso un po’ generale si poggia su delle semplificazioni. Ma il vero problema pratico non riguarda solo le “semplificazioni” in sé; riguarda l’ampiezza e la potenza dei loro effetti sociali. Riprendiamo l’esempio simbolico del Q.I. Non si tratta tanto di sapere se questa nozione, da un punto di vista puramente epistemologico, sia intrinsecamente “legittima” o meno. Posta così, questa questione di legittimità (o di validità) non sarebbe che competenza degli specialisti. Ma si dà il caso che gli esperti di Q.I non siano unicamente degli “studiosi” che lavorano all’interno della loro torre d’avorio. Sono, volenti o nolenti degli attori sociali, che intervengono in un certo sistema sociale, contribuendo a instaurare delle norme pratiche che non sono neutrali – e imponendo “un’immagine” dell’uomo che nemmeno essa è neutrale. È questo potere effettivo che, ai miei occhi, è il problema. Soprattutto dal momento in cui vi sono buone ragioni per pensare che l’attività in questione si inserisca in un movimento generale di natura totalitaria. In un tale contesto, come raccapezzarsi? Uno dei modi consiste nel rifiutare di vedere la direzione generale del processo. È esattamente quello che io chiamo l’alibi della complessità. Alibi con cui ci si può destreggiare con efficacia, bisogna dirlo. Perché tutte le questioni sono “complesse” – o possono facilmente diventarlo… Non appena si mette il naso nella biologia, nella psicologia, nella sociologia, nell’economia, non appena ci si accinge a determinare il grado di “verosimiglianza” o di “verità” di ogni singolo enunciato, si scoprono migliaia di questioni delicate sulle quali non è possibile decidere dogmaticamente. Portando questo discorso all’estremo, ogni giudizio sulla “scienza” diventa impossibile: bisogna aspettare – aspettare il giorno lontano, indefinitamente lontano, in cui la “scienza” stessa, grazie ai suoi progressi, avrà risolto tutte le questioni… Sul piano pratico, l’alibi della complessità funziona ugualmente molto bene. La ricetta è semplice: è sufficiente procedere a un bilancio minuzioso in termini di vantaggi e di inconvenienti. La fisica, per esempio, ha l’inconveniente di portare alla bomba atomica; ma il vantaggio di offrirci frigoriferi efficaci e aerei veloci. La sociologia, da parte sua, ha l’inconveniente di fornire ai commercianti, agli industriali e ai governanti dei nuovi mezzi per manipolarci; ma ha il vantaggio di chiarirci meglio, in quanto cittadini, il funzionamento della società. E così via. Alla fine di un inventario di questo tipo, non ci resta tra le mani che una moltitudine di valutazioni frammentarie – dei “buoni punti” e dei “cattivi punti” la cui somma, senza dubbio, è ben complessa! Si sfocia molto facilmente nel discorso della giusta via di mezzo: ci sono dei pro, ci sono dei contro, non bisogna esagerare da nessun lato, in medio stat virtus, utilizziamo ma non abusiamo, ogni medaglia ha il suo rovescio, si prendono più mosche con una goccia di miele che con un barile di aceto, meglio un uovo oggi che una gallina domani, non si ottiene niente in cambio di niente, ecc. Perché no? Perché non temporeggiare? Perché non adottare quest’attitudine moderata? Occorre riconoscere che questa scelta è possibile. Ma che si riconosca anche che è una scelta, nel senso più forte del termine; e che questa ha come effetto di rendere praticamente impossibile qualunque riflessione sul significato generale dell’impresa scientifica. È per questa ragione che ho deliberatamente lasciato da parte il linguaggio prudente secondo cui non si tratta (nel migliore dei casi) che di “eccessi” e di “abusi”.
Pensiamo agli armamenti nucleari, agli effetti (e alle ambizioni) di manipolazione della sociologia e della psicologia, ai progetti altrettanto manipolatori dei sociobiologisti alla Wilson, ecc. Classificare tutto questo sotto la rubrica degli “eccessi della scienza” significa fin dall’inizio ammettere che la scienza in sé è buona; e dunque implicitamente respingere ogni dibattito di fondo sulla famosa “avventura della scienza occidentale”. Spero dunque di essere abbastanza categorico su questo punto: sì, il bilancio dei benefici e dei danni passati e presenti della “scienza” non è una questione semplice – ma non è continuando a ragionare per bilanci analitici che si potranno affrontare i grandi problemi della “società scientifica”. Il minimo esempio, se lo si esamina bene, può servire d’illustrazione. Così i tranquillanti, di primo acchito, possono apparire come una meravigliosa conseguenza della ricerca scientifica e tecnica. Pensate, eravate nervosi, depressi, perfino angosciati; ed ecco che delle piccole pillole vi donano la calma, la serenità. Di cosa vi dovreste lamentare? Ma possiamo esaminare la situazione con un altro occhio. E interrogarci, per esempio, sulle ragioni che spingono la nostra società a ingurgitare tonnellate di tranquillanti. Come siamo arrivati a questo punto? Non potrebbe darsi che la causa di tutti questi disturbi nervosi e di queste depressioni sia sociale? I tranquillanti, ci viene detto, sono dei rimedi notevoli. Ma è l’ingestione di questi prodotti farmaceutici che ci aiuterà a organizzare una vita sociale meno snervante, meno traumatizzante? A poco a poco, non sarebbe troppo difficile arrivare a vedere il ricorso massiccio ai tranquillanti come una vera e propria mistificazione. D’altronde come chiamare una “medicina” che si accontenta di far scomparire i sintomi di una malattia senza attaccare le cause di quest’ultima? E ancora, si trattasse solo di questo… L’efficacia stessa dei tranquillanti finisce per far dimenticare l’esistenza di un problema di fondo, di un problema sociale. Buon successo per l’ideologia molecolare. Secondo quest’ultima, l’abbiamo visto, tutto deve essere ridotto al livello degli atomi e delle molecole – e noi stessi non siamo che mucchi di molecole… Il seguito va da sé: essendo molecole, siamo regolati da molecole. Tutto questo è “scientifico”, oggettivo. E getta una nuova luce, abbastanza viva, sul disprezzo che i tecnocrati e i loro ideologi manifestano per le “ideologie”. Porre il problema “ideologicamente”, in effetti, vuol dire porlo in termini culturali, sociali e politici; e dunque considerare un’azione sull’ambiente, sull’organizzazione stessa della nostra della nostra vita quotidiana. Ma… c’è un ma! Questo significherebbe che i problemi da risolvere non sarebbero più neurologici e farmacologici… Degli agitatori ne approfitterebbero (naturalmente) per tornare sulle solite recriminazioni contro la civilizzazione della macchina; contro il culto del profitto e della crescita; contro le stesse scienza e tecnica, chissà? Sarà meglio allora tornare al punto di partenza, cioè ai piccoli bilanci miopi che faranno comparire i tranquillanti nella colonna dei benefici, dei vantaggi che ci reca la “scienza”. Su un punto sono d’accordo: non è senza sforzo afferrare la situazione in tutta la sua complessità. Ma questa complessità, non la situo nella contabilità dettagliata dei pro e dei contro: tre punti negativi per Hiroshima, cinque punti positivi per il Concorde… La vedo piuttosto nell’”impresa scientifica” stessa, considerata come incarnazione ed espressione privilegiata di una certa pratica sociale.
L’intossicazione scientista
La mia seconda e ultima osservazione riguarda gli effetti diretti dell’ideologia scientista. Questa ideologia è immanente all’impresa scientifica stessa, nel senso che esprime le sue aspirazioni ultime: riuscire a comprendere tutto e a dominare tutto, giungere a una padronanza completa (teorica e pratica) della “realtà”. Ma è allo stesso tempo banale e fondamentale ricordarlo: la propaganda scientista che diffonde questo ideale anticipa le realizzazioni effettive della “scienza”. In altri termini, è possibile distinguere due aspetti nella scientifizzazione del mondo sociale. Da un lato una scientifizzazione “dura”, propriamente tecnica, che applica dei saperi accuratamente controllati e porta delle manipolazioni efficaci; dall’altro lato una scientifizzazione che si sviluppa a livello di discorso, a livello di retorica culturale. Questi due aspetti, di fatto, sono intimamente legati da una sorta di dialettica: l’indottrinamento scientista conduce le popolazioni a vedere nella “scienza” l’istanza suprema e a riconoscere l’egemonia degli esperti – e i successi pratici di questi ultimi, a loro volta, confermano la legittimità sociale del totalitarismo scientista. Il sistema così formato ha d’altronde le sue ricette “magiche” per camuffare gli eventuali fallimenti. Per esempio, resta inteso che la “scienza” in sé non può mai avere degli effetti negativi. Se talvolta essa appare inconcludente o perfino nociva, questo è causato soltanto dal fatto che non si è abbastanza “scientifici”. Sarà sufficiente quindi andare oltre, ricorrere maggiormente alla “scienza” perché la situazione migliori. Così si organizza una vera e propria “fuga in avanti”. Tutto questo, l’ho detto e ripetuto, poggia su una certa mistica, su diversi presupposti la cui “razionalità” e “verità” non sono affatto evidenti. E che non hanno niente di scientifico… Ma allora, non è allettante considerare lo scientismo come un’autentica intossicazione? Dalla mistica alla mistificazione, non vi è che una passo. L’ipotesi è quantomeno da prendere in considerazione: è possibile che la “scienza” (in quanto sapere effettivo, in quanto apparato cognitivo basato su delle norme severe) sia incapace di mantenere le promesse dello scientismo. Un giorno o l’altro, quest’ultimo finirà per mostrarsi (in retrospettiva) come un’ingannevole utopia. E più precisamente come una volgare dottrina metafisico-religiosa, dottrina il cui ruolo sarà stato di giustificare un certo regime commerciale-industriale-tecnocratico. Questa, certamente, non è che un’ipotesi… Il cristianesimo prometteva il paradiso; il marxismo prometteva la società senza classi; non è ancora provato “scientificamente” che lo scientismo non ci darà la Felicità assoluta! Ciò che appare certo, in ogni caso, è che l’apostolato scientista non è neutrale. L’unico dubbio possibile riguarda le possibilità della “scienza” in senso stretto, cioè di quelle attività specializzate che costituiscono la fisica, la biologia, la sociologia, ecc. Questo dubbio può esprimersi attraverso la domanda: fino a dove riusciranno ad arrivare queste discipline nella costruzione di una conoscenza e di una pratica conformi agli ideali della trasparenza “razionale”? La risposta, oggigiorno, non è così certa. Per contro, gli effetti a breve termine e a medio termine dell’intossicazione scientista sono fin troppo evidenti: attraverso il suo successo sociale, essa porta le persone a una sorta di dimissioni filosofiche, etiche, politiche. Almeno per il momento, può darsi che il problema dei limiti del sapere scientifico sia secondario. Quello che conta sono le credenze che modellano di fatto le condotte sociali. Dal momento in cui una società è persuasa che soltanto gli esperti abbiano diritto di parola, significa che una tappa temibile è già stata superata. (…)
Pierre Thuiller, Contro lo scientismo (1980), S-edizioni