Un atto di violenza.
Così è stato definito quanto è accaduto a Taranto pochi giorni or sono quando, al passaggio di una fregata della Marina militare, sono volati insulti e pietre verso di essa. Che dire? Non possiamo che essere d’accordo… È un atto di una violenza inaudita che una fregata missilistica, una unità operativa militare, peraltro intitolata all’arma dei carabinieri, possa fare rientro in una importante base della Nato, al ritorno da una missione, in pompa magna e con la truppa schierata sul ponte. Sono immagini che fanno male al cuore.
Fortunatamente quel giorno erano presenti, nei pressi del ponte girevole, alcuni nemici del militarismo, che hanno espresso tutto il loro sdegno nei confronti di questo spettacolo così violento e ripugnante. Le loro urla e gli insulti lanciati contro i militari hanno rotto l’assordante, complice silenzio di chi si limitava a godersi lo spettacolo, ed i sassi lanciati contro la fregata hanno provato a squarciare la zona grigia del tacito collaborazionismo di chi non ha mai il coraggio di chiamare per nome le cose.
Far pesare la scelta del proprio antimilitarismo – specie in questo periodo di propaganda guerrafondaia, passata dal covid alla guerra senza soluzione di continuità – è sintomo di una tensione etica particolarmente apprezzabile. Se stampa e politica nazionale tutta si sono affrettate a bollare sbrigativamente i manifestanti come “pacifisti” e a condannare il gesto, noi crediamo che urlare “Assassini!” a dei militari, a prescindere dalle contingenze storiche, sia pura e semplice verità. Smascherare il ruolo delle parole, che vorrebbero i soldati come “portatori di pace” è il primo semplice atto da compiere, per non scivolare sempre più in una realtà che vorrebbe farci credere che, al calar della sera, tutte le vacche sono grigie…
Da sempre, e per sempre, il lavoro – sporco – che i soldati sono chiamati a compiere è quello di fare la guerra e quindi di uccidere, e per questo compiono specifici addestramenti e vengono pagati. Solo la propaganda che annebbia le menti e lo svilimento di significato della lingua possono far dimenticare certe elementari banalità, così come solo una memoria selettiva può scordare, per esempio, che i marò Latorre e Girone, che hanno ammazzato due pescatori indiani pochi anni or sono, indossano la stessa divisa dei militari presenti sulla fregata “Carabiniere” e lavorano nella stessa zona. Un duplice omicidio che lo Stato italiano ha brillantemente risolto giusto pochi mesi fa, liquidando oltre un milione di euro alle famiglie degli assassinati in cambio dell’impunità.
La cronaca di questi giorni racconta la storia di un brutale esercito russo, pronto a massacrare la popolazione civile e a stuprare le donne; non racconta però che questa è pratica che appartiene a tutti gli eserciti del mondo e che l’immonda prassi dello stupro seriale e sistematico delle donne, appartiene alla storia di tutti i conflitti e, dal Vietnam a oggi – giusto per citare i massacri più vicini nel tempo – è stata ampiamente documentata. Una cronaca non scritta con la penna, ma con la baionetta che non parla della pratica della tortura come sistema scientifico applicato consapevolmente da ogni esercito, addestrato a farlo dal proprio Stato, così come hanno fatto i parà italiani in Somalia o i militari statunitensi ad Abu Ghraib.
In virtù di ciò, possiamo solo sentirci a fianco degli anonimi contestatori tarantini a cui ora la Digos sta cercando di dare un nome per accusarli di “vilipendio alle forze armate”. Reato che, semmai venisse provato, sarebbe solo faccenda di cui andare orgogliosi.