L’eccesso di realtà. In ricordo di Annie le Brun

Recensione di:

Annie Le Brun, L’eccesso di realtà. La mercificazione del sensibile, ed. BFS, 2020, pp. 186, a cura di Martina Guerrini

I testi di Annie Le Brun sono dei piccoli scrigni, ricchi di pensieri critici e riferimenti letterari che spingono alla ricerca. Non è sufficiente leggere, è necessario approfondire, scavare. L’esatto opposto della semplificazione, dell’incasellamento. Un approccio poetico alle questioni, appassionato, a volte quasi fisico. Entrarci dentro vuol dire mettere da parte le certezze e spingersi oltre. Una sorta di esercizio di riflessione e di immaginazione che aiuta a rompere schemi. Non fa eccezione questo titolo, carico di stimoli. Per alcuni versi una sorta di glossario con cui prendere consapevolezza della catastrofe che, pezzo dopo pezzo, sta devastando non solo la natura e il mondo attorno ma anche gli strumenti cognitivi, culturali, sociali ed emotivi che si potrebbero usare per contrastarla. Sovente l’autrice fa dei parallelismi che nella loro limpidezza hanno la capacità di scuotere al fine di individuare l’attacco portato ad ogni aspetto e angolo del sensibile. L’inquinamento e la devastazione della natura fanno il paio con l’inquinamento mentale cui si viene sottoposti. La manipolazione del linguaggio viene paragonata alla manipolazione alimentare operata con gli organismi geneticamente modificati. La desertificazione e l’annientamento delle foreste con il rastrellamento del pensiero.

In una società sempre più connessa, il mondo connessionista,come l’autrice lo definisce, vi è una realtà eccessiva che la sovrabbondanza, l’accumulazione, la saturazione di informazioni e di immagini rimpinzano di fatti in una vortice di eccessi di tempo e di spazio. Basti pensare alla realtà prodotta dai social network, alla quantità di post pubblicati volontariamente da miliardi di esseri umani in tutto il globo che danno bene il senso del discorso appena accennato. Alcuni elementi costituiscono una specie di faro accecante che indica l’abisso cui ci si sta dirigendo. Una tecnologia sempre più aggressiva – e solo da ultimo si può fare riferimento all’intelligenza artificiale –, ha creato, seppur ormai da tempo, un nuovo sistema di comunicazione. L’interiorizzazione della tecnica ha fatto sì che la logica del computer si sia impadronita dell’individuo, delle sue azioni, dei suoi pensieri, delle sue emozioni. A ciò è corrisposta una reticolatura degli spazi sensibili, oltreché di quelli fisici. La corrispondenza continua, nel testo, tra parola, pensiero, spazio e tempo permette di avere quasi una mappa geografica di ciò che si sta cancellando in maniera irreversibile, se si intende per geografia ciò che intendeva l’anarchico Èlisèe Reclus, e cioè una geografia fatta con i piedi, con gli occhi, con i sensi, con i libri. L’autrice sostiene che la razionalità tecnologica sta comportando una riduzione di senso sempre più ampia, una decadenza delle parole, l’annacquamento del linguaggio. “Nessuno si è preoccupato delle conseguenze sul linguaggio delle scelte tecnologiche”, tra le altre cose, verrebbe da dire. Ma non è fuori luogo l’aver sottolineato ciò che sta accadendo rispetto al linguaggio, anzi risulta essere una riflessione centrale, effettuata anche da altri autori e anche nell’ambito anarchico. Un linguaggio ridotto, a cui si dà poca importanza, sostituito da sigle, simboli, di fatto porta non solo alla riduzione della capacità di pensiero e quindi di critica ma alla neutralizzazione delle idee a favore di opinioni intercambiabili, quando ci sono, a quella che l’autrice definisce l’eguaglianza nell’insignificanza.

Il linguaggio quindi è l’altro elemento indicativo della perdita generale di senso. E se si parla di linguaggio non si può non fare riferimento all’ambiente culturale e artistico verso cui Annie Le Brun effettua una critica feroce, e non poteva essere altrimenti data la sua partecipazione al movimento surrealista. Più che poeta maledetto l’artista risulta essere al giorno d’oggi un animatore socio culturale, più che un suicidato della società egli è un sovvenzionato della società. Contento di aderire al linguaggio comune, però di tendenza, al bene comune, però alternativo, l’artista è completamente a suo agio nel mondo istituzionale, senza mal di pancia, senza cerchi alla testa. L’effetto, ancora una volta, è la neutralizzazione di tutto ciò che nell’ambito culturale potrebbe costituire un rischio di sovversione. E ciò che potrebbe fuoriuscire dal recinto e magari rischiare di diventare una mina vagante, viene subito recuperato allo stesso modo delle istanze sociali di emancipazione che vengono recuperate dal capitalismo come mode del momento. Qui torna la questione del linguaggio, del discorso chiuso che si attorciglia su se stesso, che dà l’idea di un cambiamento ma che in realtà corrisponde ad una sottrazione di immaginazione e di immaginari. E che si riflette anche nel linguaggio del corpo; non si riduce solo la parola, ma anche la gestualità, la consapevolezza dello spazio in cui il corpo si trova. Fermarsi ad attraversare ad un semaforo in una grande città, dà l’idea di una massa di corpi indistinguibili in movimento. “Il totalitarismo dell’inconsistenza, dove tutto non è soltanto l’equivalente di tutto ma dove niente esiste se non è l’equivalente di tutto e viceversa”. Ed è così che col compiacimento degli intellettuali, la ricerca, l’arte, la letteratura, almeno nella stragrande maggioranza diventano puro intrattenimento mentre le persone diventano imprese e le imprese diventano università. Anche qui un altro circuito chiuso.

Non sfugge alla critica di Le Brun ciò che viene definita norma identitaria, e cioè l’ingabbiamento in categorie che si sostituiscono all’individualità e che più che tendere alla rottura tendono all’integrazione e che, a parere dell’autrice, alimentano un eccesso di realtà, dal momento che gli esseri sono chiamati a schierarsi in insiemi equivalenti gli uni agli altri abolendo distanze e differenze. Riflessione tanto attuale quanto scomoda se si pensa alla difficoltà della critica al di là del politicamente corretto e alle questioni di genere che hanno uniformato il discorso al riguardo senza possibilità di deviazione. L’autrice fa molti esempi in merito, dalla colpevolizzazione, secondo alcune letture femministe, di pittori di secoli passati rei di aver dipinto delle donne secondo la propria sensibilità, a quella di scrittori che hanno parlato di colonizzazione creando un immaginario rivendicativo dell’altrove e dell’ovunque non legato ad un solo popolo; il riferimento è ad Aimé Césaire e ai suoi “Cahier d’un retour au pays natal”. Tutto questo risulta in sintonia con questa lettura identitaria oltre la quale non può esservi nulla, pregna di moralismo e controllo della sessualità al quale corrisponde uno sradicamento del desiderio, fatto che farebbe inorridire i più ma che è visto con favore da una parte dei sostenitori dell’identità di genere.

Ma nonostante questa analisi implacabile della società e degli esseri viventi che la abitano, immersi in una servitù volontaria da un lato e in un processo di devastazione e manipolazione dall’altro che sta creando sempre più natura, cibo ed esseri viventi informi e artificiali, vi è un contraltare sempre presente. La rivolta è sempre sull’uscio di casa, fuori dalla finestra, nella reiterazione dei no, nella enormità poetica che si contrappone al linguaggio ingessato, nei versi di Baudelaire e Rimbaud, nelle visioni letterarie di Sade, nel teatro di Jarry, nella distruzione del senso comune dei surrealisti, nella capacità di non farsi afferrare di Liabeuf, nei furti di Jacob. Un libro pieno di domande e contro la speranza, se essa, come affermava Günther Anders, predispone più agli happening che alla lotta.

Con la naturalezza delle stagioni che ritornano, ogni mattina i bambini scivolano tra i loro sogni. Hanno ancora la capacità di ripiegare come un fazzoletto la realtà che li attende. Niente è loro meno lontano del cielo nelle pozzanghere. Allora, perché non ci sono più adolescenti così selvaggi da rifiutare d’istinto il sinistro avvenire che si prepara loro? Perché non ci sono più giovani così appassionati da disertare le prospettive tracciate che si vuol far loro adottare per la vita? Perché non ci sono più esseri così determinati da opporsi con ogni mezzo al sistema di rincoglionimento da cui trae la sua forza consensuale?

Dana

Recensione tratta da Inattuale n.1, aprile 2024, bollettino di critica e cultura anarchica.

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