PAROLE SEMPLICI

PAROLE SEMPLICI.

Penso che la liberazione passi dall’individuo e non perché, in virtù di questa o quella lettura, ciò rappresenti un’affermazione più radicale, ma guardando all’essenza di questa affermazione.

Una volta che si ha consapevolezza di se stessi e delle proprie potenzialità, allora si è consapevoli anche delle possibilità di rivolta. Sta ad ognuno associarsi con altri, cercare altri simili o dissimili, molti, pochi, rimane il fatto che innanzitutto è di individui che si vuole parlare, chiunque essi siano, qualsiasi nome abbiano. Poiché il vissuto e l’esperienza hanno di certo importanza insieme alla convinzione di cui ognuno può dotarsi e tutto ciò non può essere sminuito o cancellato dalla generalizzazione di comportamenti.

I ruoli, le categorie, le identificazioni, sono agli antipodi rispetto a questa impostazione.

Secoli e secoli di dominio hanno definito il ruolo della donna e il ruolo dell’uomo, il ruolo dell’adulto e il ruolo del bambino, il ruolo del padrone e il ruolo dello schiavo, il ruolo dell’essere umano e quello di ogni altro essere vivente. Partendo da questa considerazione risulta evidente come, ad essere problematico, sia il ruolo attribuito e a causa del quale si è sviluppata una certa oppressione e come la relazione sociale alla base di questa attribuzione di ruolo vada frantumata.

Ciò che di conseguenza dovrebbe portare alla liberazione, sembra essersi invece incancrenito nella codificazione di linguaggio, gesti, modi di fare e nella conseguente imposizione di divieti e regole.

Eccola qui la prima questione, e forse la più importante, da affrontare: il codice. Esso rimanda ad una istituzione, non all’autonomia; all’ordine, non alla rivolta; alle prigioni, non alla libertà. Quando si codifica è a quel reticolo che bisognerà attenersi, con tanto di punizione e controllo laddove le regole imposte vengono disattese.

Affronto qui la questione del femminismo, anche quello radicale, e della identitarietà cui molti discorsi che cercano di opporsi all’oppressione, come quella contro le donne o le persone omosessuali, lesbiche e trans e via dicendo, abbiano portato. Questa identitarietà, quasi sempre vittimista ed escludente, è diventata attualmente uno strumento per imporre regole e linguaggi e creare separazioni. Essa inoltre è l’argomento cui non si può sfuggire, essendo presente in ogni salsa e in ogni contesto e al di là del quale non sembra esserci nulla. Spesso le varie questioni si affrontano con l’ottica identitaria di chi si considera vittima di genere di questo sistema. Ora, ciò che non si può condividere è che tale fenomeno stia costringendo all’omologazione più che alla libertà, ad una sorta di subdola moralità che paradossalmente riproduce ciò che voleva combattere. Nessuna parola fuori posto, nessun gesto fuori posto, nessun pensiero fuori posto. O si parla e ci si comporta in un certo modo oppure si è fuori. Ma fuori da che cosa? Dall’ansia del politicamente corretto che diventa una sorta di polizia del linguaggio e del comportamento? Dagli schemi mentali di chi, fondamentalmente, guarda alle persone come categorie?

È interessante a questo punto fare un parallelo con il modello omologante e stereotipizzante del dominio.

Le questioni queer e femminista, seppur da un punto di vista riformistico, sono assolutamente centrali, da qualche tempo a questa parte, nei discorsi e nella propaganda mediatica. E come è facile prevedere, non perché il dominio si interessi ad una reale emancipazione degli individui, ma perché il recupero di queste istanze è molto redditizio e così facendo evita che, questa come altre istanze, possa sfociare in una critica più generalizzata. Basti pensare alle pubblicità di abbigliamento, profumi, telefonia e quant’altro per potersene accorgere o a coloro che, a livello mediatico, se ne dichiarano paladini. Nemici di classe, si sarebbe detto un tempo, che traggono profitto dai cambiamenti della società. Qualche tempo fa, un noto quotidiano nazionale riportava un grafico che comprendeva tutte le definizioni di coloro che non si identificano nel genere donna, uomo. Ad ogni definizione era associato un colore. Si aveva la sensazione di trovarsi di fronte ad un compito scolastico, un approccio didattico e scientifico a ciò che dovrebbe attenere ad una sfera personale irriducibile a schemi e grafici. Per quale motivo l’ individuo deve essere identificabile esattamente in qualcosa e non può avere tante sfaccettature? Ma questo, si dirà, è ciò che fanno i media. Eppure da un lato, sull’onda emotiva del momento, a causa dell’ennesimo omicidio a danno di una giovane donna per mano di un uomo, la pubblicità di una compagnia telefonica rappresenta un labirinto da cui un uomo riesce facilmente a uscire. mentre una donna si trova davanti ad un muro da dover abbattere; dall’altro c’è chi, in ambito antagonista, invita ad un incontro creativo per la realizzazione di grafiche dalle tematiche anticarcerarie, antipsichiatriche ecc, a cui però non possono partecipare cosiddetti maschi etero cis. In che modo poi si possa stabilire una selezione di questo tipo, sembra alquanto oscuro. Si redige un questionario con delle domande? Basta l’atteggiamento o l’abbigliamento? I tratti del viso? Magari gli scritti di Lombroso possono dare qualche suggerimento in merito.

Non può sfuggire il fatto che la mercificazione da parte del capitalismo è sempre dietro l’angolo e che qualsiasi discorso viene recuperato, fagocitato e adattato all’uso di una omologazione culturale totalmente pervasiva. Per questo anche l’utilizzo di slogan come “se non torno a casa, bruciate tutto” non è (purtroppo) la manifestazione di una radicalità di intenti, quanto la spettacolarizzazione di una tensione inesistente se è vero, come è vero, che addirittura il sito della polizia di Stato italiana ha utilizzato questo slogan, parlando dell’assassinio di una giovane donna ad opera di un uomo. Sito che è stato poi tempestato di commenti di donne, che contestavano il fatto di essere state sminuite e denigrate proprio da quei poliziotti nel momento in cui si erano presentate a denunciare le violenze o i maltrattamenti subiti. Commenti che sono stati prontamente rimossi.

Un altro aspetto è ancora da considerare. La tendenza di questa società tecnologica a estirpare differenze, peculiarità, particolarità, singolarità per rendere tutti uniformi. Macchine performanti, con desideri controllati, spesso indotti, che non possono deviare da ciò che è prestabilito. Cancellata l’immaginazione, la creatività, la passione, tutto deve essere previsto e prevedibile, altrimenti diventa pericoloso per la società stessa. Non sfuggono a questa logica neppure le rivendicazioni che tentano di trasformare la società da un punto di vista dei rapporti sociali. Tali rivendicazioni sono consentite se possono essere controllate, vengono invece denigrate e criminalizzate se sono irrecuperabili.

Per questo è di distruzione che bisognerebbe parlare; di distruzione di ruoli e categorie, di morale e obblighi, di codici e regole di comportamento, in qualunque ambito si manifestino, qualsiasi sia la loro provenienza.

Se i discorsi sull’oppressione non tengono conto di quanto la religione, ad esempio, abbia inciso e incida ancora sulla determinazione e mantenimento di ruoli ben definiti da cui non era possibile sfuggire e che si sono reiterati per secoli, come è possibile comprendere ciò che molte donne, ma anche molti uomini, o molti omosessuali e lesbiche e trans ad esempio hanno subito e tuttora subiscono? E come è possibile scardinare quella oppressione, se non si dà il peso necessario, gravoso, a quella causa. È del tutto fuorviante ad esempio, ma anche molto pericoloso, pensare che non sia possibile criticare l’identità che passa attraverso la religione, considerata una sorta di rivendicazione di chi, da immigrato o immigrata, deve subire il razzismo dello Stato di approdo e delle sue leggi. Può avere un senso per chi settorializza la vita, la incasella, ne fa un grafico, non per chi tende alla liberazione. Quando si arrivano a bruciare i libri in nome di una presunta rivendicazione e difesa di oppressi come avvenuto a Saint Imier in Svizzera – durante gli “Incontri internazionali antiautoritari” del luglio 2023, dove è stato messo sotto accusa un banchetto di una federazione anarchica francese che esponeva libri che criticavano l’Islam –, mentre in realtà ci si trova davanti a metodi e contenuti autoritari, è evidente che la situazione è sfuggita di mano.

E ciò non toglie il rispetto e l’empatia per le sofferenze altrui, per l’oppressione subita; tuttavia non possono essere le parole del dominio a mostrare la strada. Anzi, qualora ci si renda conto di avere con esso elementi in comune, è sicuramente un’altra la strada da percorrere.

Ciò può essere esemplificato con la diffusione della psicologia in ogni ambito e anche in quelle che vengono considerate questioni di genere. Una certa vittimizzazione scaturisce anche dal considerare le vicende esclusivamente sotto un aspetto emotivo, psicologico, di cura, di tutela. Ancora una volta, comportamenti da controllare, zone comfort da realizzare. L’idea che ne scaturisce è che, in fondo, gli esseri umani non sono più in grado di gestire le proprie relazioni, da considerare come fonte di paura, di insicurezza, di ansia, esattamente ciò che sta accadendo a milioni di adolescenti e adulti che alla irrazionalità, alla imprevedibilità e scoperta della vita preferiscono uno schermo che crea una distanza dal caos, interno ed esterno, cui devono relazionarsi e che anziché incuriosirli, attrarli ed emozionarli, li spaventa. Di recente mi è capitato di leggere un volantino che annunciava un’iniziativa il cui titolo era: “oppresse per natura”, dove la e finale di oppresse era scritta con la schwa. Ho provato dei brividi e un moto di rabbia che mi ha spinto a strapparlo. Ho trovato aberrante la rivendicazione di una condizione di oppressione, che sarebbe addirittura immutabile, deterministicamente data per sempre. Essere solidali con chi subisce o ha subito un’oppressione non significa esaltarla, ma tentare di sovvertirla e ribaltarla. Altrimenti non vi è nessuna differenza con il raccontino di Adamo ed Eva che ha rappresentato l’immutabilità di una condizione per secoli.

Siamo anche il frutto della società in cui viviamo, sarebbe il caso di non nasconderselo più, per evitare che la bussola, che molti compagni e compagne del passato ci hanno indicato, vada persa per sempre. Questo probabilmente è sempre stato; un tempo gli anarchici erano profondamente positivisti, credevano nella scienza come fonte di progresso. Oggi un certo neoliberalismo si è inserito nella testa e nel cuore di molti e di molte insozzando miserabilmente contesti e situazioni.

E allora è bene ricordarsi che, comunque vengano presentate, è di questioni sociali che si parla, che non sono separate le une dalle altre ma si intersecano sempre e che, a furia di frammentarle, esse riducono le possibilità di azione e reazione.

Ma è bene anche chiedersi: quali relazioni si stanno costruendo alla luce di tutto questo? Ed esiste ancora qualcosa di intimo, personale, individuale da custodire, che sia irriducibile a qualsiasi categoria o definizione e che sia semplicemente espressione della propria follia o turbamento?

L’imbarazzo e lo sbalordimento spesso provato per le prese di posizione che stanno, in qualche caso annacquando, in altre annientando, un’idea antiautoritaria, è bene che si sostituiscano ad un deciso rifiuto.

POCHE PAROLE.

È una strana sensazione quella provata nel leggere un testo vuoto, che non suggerisce nulla, che non ha emozione, che non spiega niente mentre è pieno, carico, stracolmo di paroloni: rivolta, rivoluzione, sovversione, azione, libertà. Si ha l’impressione che sia scritto da una mano meccanica e quindi è come se ci si trovasse difronte ad un falso e non inteso come strumento di lotta, come affermerebbero ancora alcuni anarchici e alcune anarchiche, care ad un’idea antiautoritaria sempre più vilipesa, ma un falso nel vero senso del termine, poiché i paroloni usati sono solo esercizi di sfoggio di esotismo passatista. L’ossimoro con cui si è iniziato questo testo, è probabilmente la metafora di questo periodo storico. Carico di immagini e parole a non finire che non hanno alcun significato, che servono solo a riempire spazi e tempi altrimenti insopportabili. Ed è la medesima operazione che si può trovare anche nella presentazione di testi anarchici, anzi di anarchiche, perché le compagne, di ieri e di oggi, lungi dall’essere considerate degli individui, con la loro esperienza, il loro pensiero, la loro sensibilità, il loro vissuto, sono oggetto di speculazione, utili a legittimare l’inaccettabile.

Quando infatti si diffonde l’autobiografia di un’anarchica per inserire all’interno le proprie invettive e i propri insulti contro altri compagni e compagne e si mettono per iscritto delle accuse con tanto di nome e cognome dell’accusato, invitando la repressione a nozze, al di là di una ridicola giustificazione giuridica che non ha nessun fondamento (la megalomania a volte fa brutti scherzi), a che cosa siamo di fronte? E che oltre alle operazioni sotto banco, di chi, in maniera imperterrita, continua a contattare compagni in giro per il mondo per distribuire questa informazione, come se poi tale storia potesse essere il centro della vita di tutti gli anarchici e le anarchiche del pianeta, costretti e costrette a misurarsi con tale vicenda, ciò sia permesso anche in una presentazione pubblica è inaccettabile oltreché insopportabile. Dovrebbe essere comprensibile a chiunque che non può esserci spazio per qualcosa del genere e non è possibile che compagni e compagne non se ne rendano conto.

È anche vero che chi sbraita, urla, si batte il petto e si straccia le vesti, tentando in mille modi e in mille occasioni di cospargere di merda e calunnie compagni e compagne parla attraverso i suoi gesti. Che significato possono avere delle parole talmente vuote e contraddittorie? Nessuno! Non hanno davvero alcun significato! Sono solo il rumore di chi ha deciso di stare sotto i riflettori, su un palcoscenico, nella spettacolarizzazione di vicende e questioni. Il metodo usato fa schifo. La vita di un anarchico o un’anarchica, del passato o di oggi non sono un post di facebook o una storia di tik tok e avere la percezione che siano trattati sempre più alla stessa stregua è aberrante.

Dovrebbero essere concetti scontati ma sembra siano stati dimenticati.

Una compagna anarchica

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