Patria!

La patria! Divisione arbitraria che separa l’umanità per permettere ai ciarlatani della politica e della finanza, non appena lo esige il loro egoismo, di scagliare i popoli l’uno contro l’altro. Che importa dei cadaveri che giacciono al suolo, più noi versiamo del sangue e migliore sarà il loro raccolto; la rossa rugiada non è forse la più fruttuosa per loro?

La patria! È bella per noi che non abbiamo né soldi, né abiti, per noi che siamo sfruttati ogni giorno da coloro che si riempiono la bocca di questa parola, la patria, soprattutto quando siamo chiamati a difendere nient’altro che i nostri strumenti di tortura.

I possidenti e i governanti non hanno bisogno soltanto della carne da lavoro che gli permette di riempire le loro casseforti, ma anche della carne da macello per difendere la loro proprietà acquisita così bene e allora danno i fucili ai giovani, gli dicono di sparare sia sui loro fratelli di miseria che vivono al di là della frontiera sia sui loro padri e fratelli.

Se cantate sapendo tutto questo, sarete degni dei capi che vi comanderanno con l’insulto sulle labbra e puntandovi contro la spada.

Ma se, nauseati da questo stato di cose, volete come noi il benessere per tutti, vi deciderete a sferzare un colpo dopo l’altro alla società attuale e lotterete al contrario contro questa patria disumana, contro gli sfruttatori e i governanti, contro i vampiri che vivono di questi pregiudizi che costano così tanto sangue, così tanta miseria.

Dalla patria deriva la schiavitù, dal suo crollo nascerà la libertà. Sta a voi scegliere tra rivoluzione e militarismo, tra la dignità e l’avvilimento.

La Jeunesse Révolutionairre (1891)

Fuoco! Sangue! Veleno! Patto con la morte.                                                                    Anarchici a Marsiglia alla fine del XIX secolo, Indesiderabili edizioni, ottobre 2020

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Nuovi titoli in distribuzione

Tom 2.0, Benvenuti a smart city (che non è intelligente e non è una città),   ed. Nautilus, 2021, pag. 46, € 3,50

Ciascuno al suo posto, un posto per ciascuno. Qui l’angolo dei bambini, là la pista ciclabile. Qui il prato rasato, là un quadrato di erbe selvatiche. Qui l’angolo “Lavoro”, là lo spazio “Relax”. Questa perfezione calcolata al millimetro, disumana, dà la sensazione di attraversare un villaggio Potëmkin, ma realmente abitato da abitanti Potëmkin.
Per quanto smart vogliano considerarsi, gli Smartiani sono degli assistiti. Assistiti tramite computer. Assistiti dal proletariato asiatico. Assistiti dai sociologi del comportamento. Assistiti dagli ingegneri e dai cyber-poliziotti. Sono uomini-macchina che vivono in una città-macchina all’interno di un mondo-macchina, ma sognano se stessi come liberi pensatori. Non sentono la rete di contenzione che li stringe ogni istante di più.

Raoul Vaneigem, Ritorno alla base, ed. Nautilus, 2021, pag. 30, € 2,50

«Non sapevano che fosse impossibile, allora l’hanno fatto». Questa frase di Mark Twain è ogni giorno più pertinente a mano a mano che si moltiplicano, decrescono e rinascono le insurrezioni planetarie.
Chiunque se ne può accorgere: i conflitti ideologici sono esche. La vera lotta è ovunque gli abitanti di un paese o di un quartiere urbano rifiutano i pesticidi e le nocività, rinnovano l’insegnamento, rimettono in funzione le strutture ospedaliere, affrontano il problema della mobilità, salvano i commerci locali, studiano il passaggio dell’agroalimentare a un’agricoltura rigenerata, aprono centri di accoglienza per quanti subiscono quotidianamente un’oppressione burocratica, economica, familiare, sessista o razzista.

 

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Yves Pagès, Liabeuf l’ammazzasbirri

Un giovane artigiano, abile ciabattino, proletario orgoglioso di sé, s’innamora di una prostituta. I poliziotti della buoncostume lo accusano di esserne il protettore. Sanno di mentire, ma vogliono dare una lezione a quella testa che non si abbassa al loro cospetto. A nulla varranno in tribunale le dichiarazioni della ragazza, del giovane artigiano, di chi lo conosce, nemmeno il suo datore di lavoro sarà creduto. Come sempre accade, per il giudice fa fede la parola dei poliziotti. E condanna il ciabattino. La Società decreta pubblicamente che Jean-Jacques Liabeuf è un volgare magnaccia. Il suo cuore esplode di rabbia per questa umiliazione. Allorché esce di prigione, un solo pensiero prende possesso della sua mente. Non si rivolge all’opinione pubblica, non fa scioperi della fame, non invia lettere di protesta alle autorità competenti, non fa presidi davanti ai tribunali, non si suicida per la vergogna. Ma pianifica la sua terribile vendetta. Si costruisce dei bracciali e dei paraspalle appositi, irti di punte d’acciaio per tenere a bada la stretta degli sbirri (che all’epoca giravano disarmati, contando solo sulla forza dei loro muscoli), si procura un’arma e va a caccia di coloro che hanno calpestato la sua dignità. Non trovandoli, se la prenderà coi loro colleghi. Ovvero con chi ha sicuramente mortificato qualcun altro o, nel migliore dei casi, è quotidianamente complice di simili nefandezze. Sono stati gli sbirri ad averlo immerso nel fango insudiciando il suo amore, sono gli sbirri che lui vuole annegare nel sangue. Ed è quello che farà. Così Liabeuf prova «l’inebriante gioia della vendetta soddisfatta».

136 pages // A5 // 6 euro // ed. Impatience Imprimerie Anarchiste, Marsiglia, 2021

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Nuovi titoli in distribuzione

Un po’ di nuovi arrivi e vecchi titoli nuovamente disponibili:

  • AA. VV., Contributi dalla Fiera del Libro Anarchico – Marsiglia 2019,  ed. Imprimerie Anarchiste L’Impatience, 2021, pag. 117, € 4
  • Yves Pagès, Liabeuf. L’ammazzasbirri, ed. Imprimerie Anarchiste L’Impatience, 2021, pag. 133, € 6
  • AA. VV., A stormo! Contro il TAV, il cittadinismo, le delazioni, ed. Indesiderabili, 2015, pag. 111, € 6
  • Giovanni Gavilli – Errico Malatesta, I banditi rossi, ed. Indesiderabili, 2014, pag. 38, € 3,50
  • Julius Van Daal, Bello come una prigione che brucia, ed. Indesiderabili, 2014, pag. 58, € 4
  • René Char, Fogli d’Ipnos 1943-1944, ed. Indesiderabili, 2014, pag. 47, € 3,50
  • Alèssi Dell’Umbria, R.I.P. Jacques Mesrine, ed. Indesiderabili, 2014, pag. 43, € 3,50
  • Fuoco! Sangue! Veleno! Patto con la morte. Anarchici a Marsiglia alla fine del XIX secolo, ed. Indesiderabili, 2020, pag. 251, € 10
  • Sante Pollastro, La rivolta nell’ergastolo di Santo Stefano, ed. Indesiderabili, 2014, pag. 18, € 1,50
  • La zampata della vita, ed. Indesiderabili, 2014, pag. 15, € 1,50
  • ProvocAzione. Mensile anarchico, n°2, febbraio 1987, pag. 8, € 1
  • ProvocAzione. Mensile anarchico, n°6, giugno 1987, pag. 12, € 1
  • ProvocAzione. Mensile anarchico, n°7, settembre 1987, pag. 10, € 1
  • ProvocAzione. Mensile anarchico, n°8, ottobre 1987, pag. 8, € 1
  • ProvocAzione. Mensile anarchico, n°17, novembre 1988, pag. 8, € 1
  • ProvocAzione. Mensile anarchico, n°19, febbraio 1989, pag. 18, € 1
  • ProvocAzione. Mensile anarchico, n°21, giugno 1989, pag. 20, € 1
  • ProvocAzione. Mensile anarchico, n°22, novembre 1989, pag. 22, € 1
  • ProvocAzione. Mensile anarchico, n°23, febbraio 1990, pag. 22, € 1
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Contro lo scientismo

La “complessità” come realtà e come alibi

Vorrei terminare con due osservazioni. La prima riguarda la complessità della questione che ho tentato di porre. Dicendo questo, penso in particolare al caso dei paesi in via di sviluppo – e per esempio a questa dichiarazione fatta qualche anno fa da M.Roche, presidente del Consiglio nazionale di ricerca scientifica e tecnica del Venezuela:

“Il novanta per cento della popolazione mondiale desidera ancora appassionatamente la scienza al fine di utilizzarla come una fonte di benessere umano; noi desideriamo perfino l’inquinamento, perché vi vediamo un segno certo di prosperità”.

Tesi di questo tipo ( e problemi di questo tipo…) richiedono di essere considerati con attenzione, anche se non è poi così semplice che la “scienza” sia il rimedio universale, perché vi è in gioco la sopravvivenza stessa di certi gruppi di uomini. Dal momento che la “scienza” appare in grado di risolvere alcune questioni assolutamente urgenti, sarebbe stupido non tenerne conto. Tuttavia, anche per quanto riguarda il terzo mondo, niente ci dice che il ricorso sistematico (e, oserei dire, cieco) alla “scienza” costituisca la sola o la miglior risorsa. Sembra proprio che un certo neocolonialismo sciento-tecnocratico, in diversi casi, sia stato impotente, se non addirittura nocivo. E che le soluzioni meno “occidentali” ma più adatte siano state frequentemente (e presuntuosamente) trascurate. Se le cose stessero così, ne risulterebbe che l’ottimismo e il militarismo scientisti potrebbero e dovrebbero, ancora una volta, essere rimessi in discussione.

Comunque sia, il mio proposito non era di parlare della “scienza” nei paesi in via di sviluppo, ma in quelli in cui essa sta conoscendo l’espansione che ben conosciamo. Anche qui, la situazione non è semplice. Per cercare di descriverla e di valutarla, ho ovviamente fatto delle scelte e privilegiato certe interpretazioni. Detto altrimenti, io stesso ho proceduto a delle semplificazioni; semplificazioni che il lettore critico potrà trovare ugualmente illecite (o ancora più illecite) di quelle di cui si rende colpevole la “scienza”…Ma questa simmetria astratta, ritengo, non dovrebbe far dimenticare un’asimettria molto più concreta e molto più fondamentale. Quella che riguarda le forze a confronto. Perché ammettiamolo: qualunque discorso un po’ generale si poggia su delle semplificazioni. Ma il vero problema pratico non riguarda solo le “semplificazioni” in sé; riguarda l’ampiezza e la potenza dei loro effetti sociali. Riprendiamo l’esempio simbolico del Q.I. Non si tratta tanto di sapere se questa nozione, da un punto di vista puramente epistemologico, sia intrinsecamente “legittima” o meno. Posta così, questa questione di legittimità (o di validità) non sarebbe che competenza degli specialisti. Ma si dà il caso che gli esperti di Q.I non siano unicamente degli “studiosi” che lavorano all’interno della loro torre d’avorio. Sono, volenti o nolenti degli attori sociali, che intervengono in un certo sistema sociale, contribuendo a instaurare delle norme pratiche che non sono neutrali – e imponendo “un’immagine” dell’uomo che nemmeno essa è neutrale. È questo potere effettivo che, ai miei occhi, è il problema. Soprattutto dal momento in cui vi sono buone ragioni per pensare che l’attività in questione si inserisca in un movimento generale di natura totalitaria. In un tale contesto, come raccapezzarsi? Uno dei modi consiste nel rifiutare di vedere la direzione generale del processo. È esattamente quello che io chiamo l’alibi della complessità. Alibi con cui ci si può destreggiare con efficacia, bisogna dirlo. Perché tutte le questioni sono “complesse” – o possono facilmente diventarlo… Non appena si mette il naso nella biologia, nella psicologia, nella sociologia, nell’economia, non appena ci si accinge a determinare il grado di “verosimiglianza” o di “verità” di ogni singolo enunciato, si scoprono migliaia di questioni delicate sulle quali non è possibile decidere dogmaticamente. Portando questo discorso all’estremo, ogni giudizio sulla “scienza” diventa impossibile: bisogna aspettare – aspettare il giorno lontano, indefinitamente lontano, in cui la “scienza” stessa, grazie ai suoi progressi, avrà risolto tutte le questioni… Sul piano pratico, l’alibi della complessità funziona ugualmente molto bene. La ricetta è semplice: è sufficiente procedere a un bilancio minuzioso in termini di vantaggi e di inconvenienti. La fisica, per esempio, ha l’inconveniente di portare alla bomba atomica; ma il vantaggio di offrirci frigoriferi efficaci e aerei veloci. La sociologia, da parte sua, ha l’inconveniente di fornire ai commercianti, agli industriali e ai governanti dei nuovi mezzi per manipolarci; ma ha il vantaggio di chiarirci meglio, in quanto cittadini, il funzionamento della società. E così via. Alla fine di un inventario di questo tipo, non ci resta tra le mani che una moltitudine di valutazioni frammentarie – dei “buoni punti” e dei “cattivi punti” la cui somma, senza dubbio, è ben complessa! Si sfocia molto facilmente nel discorso della giusta via di mezzo: ci sono dei pro, ci sono dei contro, non bisogna esagerare da nessun lato, in medio stat virtus, utilizziamo ma non abusiamo, ogni medaglia ha il suo rovescio, si prendono più mosche con una goccia di miele che con un barile di aceto, meglio un uovo oggi che una gallina domani, non si ottiene niente in cambio di niente, ecc. Perché no? Perché non temporeggiare? Perché non adottare quest’attitudine moderata? Occorre riconoscere che questa scelta è possibile. Ma che si riconosca anche che è una scelta, nel senso più forte del termine; e che questa ha come effetto di rendere praticamente impossibile qualunque riflessione sul significato generale dell’impresa scientifica. È per questa ragione che ho deliberatamente lasciato da parte il linguaggio prudente secondo cui non si tratta (nel migliore dei casi) che di “eccessi” e di “abusi”.

Pensiamo agli armamenti nucleari, agli effetti (e alle ambizioni) di manipolazione della sociologia e della psicologia, ai progetti altrettanto manipolatori dei sociobiologisti alla Wilson, ecc. Classificare tutto questo sotto la rubrica degli “eccessi della scienza” significa fin dall’inizio ammettere che la scienza in sé è buona; e dunque implicitamente respingere ogni dibattito di fondo sulla famosa “avventura della scienza occidentale”. Spero dunque di essere abbastanza categorico su questo punto: sì, il bilancio dei benefici e dei danni passati e presenti della “scienza” non è una questione semplice – ma non è continuando a ragionare per bilanci analitici che si potranno affrontare i grandi problemi della “società scientifica”. Il minimo esempio, se lo si esamina bene, può servire d’illustrazione. Così i tranquillanti, di primo acchito, possono apparire come una meravigliosa conseguenza della ricerca scientifica e tecnica. Pensate, eravate nervosi, depressi, perfino angosciati; ed ecco che delle piccole pillole vi donano la calma, la serenità. Di cosa vi dovreste lamentare? Ma possiamo esaminare la situazione con un altro occhio. E interrogarci, per esempio, sulle ragioni che spingono la nostra società a ingurgitare tonnellate di tranquillanti. Come siamo arrivati a questo punto? Non potrebbe darsi che la causa di tutti questi disturbi nervosi e di queste depressioni sia sociale? I tranquillanti, ci viene detto, sono dei rimedi notevoli. Ma è l’ingestione di questi prodotti farmaceutici che ci aiuterà a organizzare una vita sociale meno snervante, meno traumatizzante? A poco a poco, non sarebbe troppo difficile arrivare a vedere il ricorso massiccio ai tranquillanti come una vera e propria mistificazione. D’altronde come chiamare una “medicina” che si accontenta di far scomparire i sintomi di una malattia senza attaccare le cause di quest’ultima? E ancora, si trattasse solo di questo… L’efficacia stessa dei tranquillanti finisce per far dimenticare l’esistenza di un problema di fondo, di un problema sociale. Buon successo per l’ideologia molecolare. Secondo quest’ultima, l’abbiamo visto, tutto deve essere ridotto al livello degli atomi e delle molecole – e noi stessi non siamo che mucchi di molecole… Il seguito va da sé: essendo molecole, siamo regolati da molecole. Tutto questo è “scientifico”, oggettivo. E getta una nuova luce, abbastanza viva, sul disprezzo che i tecnocrati e i loro ideologi manifestano per le “ideologie”. Porre il problema “ideologicamente”, in effetti, vuol dire porlo in termini culturali, sociali e politici; e dunque considerare un’azione sull’ambiente, sull’organizzazione stessa della nostra della nostra vita quotidiana. Ma… c’è un ma! Questo significherebbe che i problemi da risolvere non sarebbero più neurologici e farmacologici… Degli agitatori ne approfitterebbero (naturalmente) per tornare sulle solite recriminazioni contro la civilizzazione della macchina; contro il culto del profitto e della crescita; contro le stesse scienza e tecnica, chissà? Sarà meglio allora tornare al punto di partenza, cioè ai piccoli bilanci miopi che faranno comparire i tranquillanti nella colonna dei benefici, dei vantaggi che ci reca la “scienza”. Su un punto sono d’accordo: non è senza sforzo afferrare la situazione in tutta la sua complessità. Ma questa complessità, non la situo nella contabilità dettagliata dei pro e dei contro: tre punti negativi per Hiroshima, cinque punti positivi per il Concorde… La vedo piuttosto nell’”impresa scientifica” stessa, considerata come incarnazione ed espressione privilegiata di una certa pratica sociale.

L’intossicazione scientista

La mia seconda e ultima osservazione riguarda gli effetti diretti dell’ideologia scientista. Questa ideologia è immanente all’impresa scientifica stessa, nel senso che esprime le sue aspirazioni ultime: riuscire a comprendere tutto e a dominare tutto, giungere a una padronanza completa (teorica e pratica) della “realtà”. Ma è allo stesso tempo banale e fondamentale ricordarlo: la propaganda scientista che diffonde questo ideale anticipa le realizzazioni effettive della “scienza”. In altri termini, è possibile distinguere due aspetti nella scientifizzazione del mondo sociale. Da un lato una scientifizzazione “dura”, propriamente tecnica, che applica dei saperi accuratamente controllati e porta delle manipolazioni efficaci; dall’altro lato una scientifizzazione che si sviluppa a livello di discorso, a livello di retorica culturale. Questi due aspetti, di fatto, sono intimamente legati da una sorta di dialettica: l’indottrinamento scientista conduce le popolazioni a vedere nella “scienza” l’istanza suprema e a riconoscere l’egemonia degli esperti – e i successi pratici di questi ultimi, a loro volta, confermano la legittimità sociale del totalitarismo scientista. Il sistema così formato ha d’altronde le sue ricette “magiche” per camuffare gli eventuali fallimenti. Per esempio, resta inteso che la “scienza” in sé non può mai avere degli effetti negativi. Se talvolta essa appare inconcludente o perfino nociva, questo è causato soltanto dal fatto che non si è abbastanza “scientifici”. Sarà sufficiente quindi andare oltre, ricorrere maggiormente alla “scienza” perché la situazione migliori. Così si organizza una vera e propria “fuga in avanti”. Tutto questo, l’ho detto e ripetuto, poggia su una certa mistica, su diversi presupposti la cui “razionalità” e “verità” non sono affatto evidenti. E che non hanno niente di scientifico… Ma allora, non è allettante considerare lo scientismo come un’autentica intossicazione? Dalla mistica alla mistificazione, non vi è che una passo. L’ipotesi è quantomeno da prendere in considerazione: è possibile che la “scienza” (in quanto sapere effettivo, in quanto apparato cognitivo basato su delle norme severe) sia incapace di mantenere le promesse dello scientismo. Un giorno o l’altro, quest’ultimo finirà per mostrarsi (in retrospettiva) come un’ingannevole utopia. E più precisamente come una volgare dottrina metafisico-religiosa, dottrina il cui ruolo sarà stato di giustificare un certo regime commerciale-industriale-tecnocratico. Questa, certamente, non è che un’ipotesi… Il cristianesimo prometteva il paradiso; il marxismo prometteva la società senza classi; non è ancora provato “scientificamente” che lo scientismo non ci darà la Felicità assoluta! Ciò che appare certo, in ogni caso, è che l’apostolato scientista non è neutrale. L’unico dubbio possibile riguarda le possibilità della “scienza” in senso stretto, cioè di quelle attività specializzate che costituiscono la fisica, la biologia, la sociologia, ecc. Questo dubbio può esprimersi attraverso la domanda: fino a dove riusciranno ad arrivare queste discipline nella costruzione di una conoscenza e di una pratica conformi agli ideali della trasparenza “razionale”? La risposta, oggigiorno, non è così certa. Per contro, gli effetti a breve termine e a medio termine dell’intossicazione scientista sono fin troppo evidenti: attraverso il suo successo sociale, essa porta le persone a una sorta di dimissioni filosofiche, etiche, politiche. Almeno per il momento, può darsi che il problema dei limiti del sapere scientifico sia secondario. Quello che conta sono le credenze che modellano di fatto le condotte sociali. Dal momento in cui una società è persuasa che soltanto gli esperti abbiano diritto di parola, significa che una tappa temibile è già stata superata. (…)

Pierre Thuiller, Contro lo scientismo (1980), S-edizioni

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La rinuncia ad agire è un’azione insufficiente

Lei una volta ha definito le centrali nucleari strumenti d’omicidio. Ogni anno capitano centinaia di incidenti…

… Che poi vengono nascosti e sminuiti…

… Ma cosa dobbiamo fare ancora, per farci ascoltare?

Ebbene, per prima cosa, e questo potrebbe forse spaventarla, o forse no, voglio dichiarare: nonostante io molto spesso venga considerato un pacifista, sono giunto alla convinzione che con la non-violenza non si possa più arrivare a nulla. La rinuncia ad agire è un’azione insufficiente.

Questa è una nuova convinzione?

Dopo Chernobyl è tutto più chiaro. In questo momento sto scrivendo un libro che s’intitola Stato di necessità e leggitima difesa. Ci troviamo in una situazione, e nessuno può contestarlo, che giuridicamente può, anzi deve, essere considerata come <<stato di necessità>>. Milioni di persone, l’intera vita sulla Terra e quindi anche la vita futura, sono minacciate di morte. Non da gente che vuole uccidere persone direttamente, bensì da gente che ne accetta il rischio, e che riesce a pensare solo in termini tecnici e quantitativi…

O proprio economici…

… Naturalmente. Economici e affaristici. Insomma noi siamo in una situazione che, giuridicamente parlando, è uno <<stato di necessità>>. Da tutti i codici, anche da quello di Diritto Canonico, in una situazione di stato di necessità la violenza non è solamente permessa, ma è raccomandata. Per esempio nel paragrafo 53, 1-3 del Codice penale tedesco. Ciò va spiegato. Non è possibile opporre una resistenza efficace attraverso metodi benevoli come il dono di mazzetti di nontiscordardime, che i poliziotti non possono nemmeno prendere perché tengono in mano i manganelli. Altrettanto inadeguato, anzi insensato, è digiunare per la pace atomica. Questo produce un effetto soltanto nel digiunatore, cioè la fame; e forse la buona coscienza di aver <<fatto>> qualcosa. Ai Reagan e alla lobby atomica, però, non importa nulla se noi mangiamo un panino al prosciutto in più o in meno. Tutte queste cose sono davvero solo happenings. Oggi le nostre pretese azioni politiche somigliano spaventosamente a quelle azioni apparenti che sorsero negli anni ’60. Anche quelle mutavano già (o ancora) tra il sembrare e l’essere, e coloro i quali conducevano tali azioni credevano certamente di aver oltrepassato il limite della pura teoria, ma in verità restavano actores soltanto nel senso di attori. Facevano solamente teatro. E ciò per paura del vero agire. Effettivamente non suscitavano nessuna esplosione, ma solamente uno choc che dovevano addirittura gustarsi. Il teatro e la non-violenza sono parenti stretti.

Lei difende la violenza, signor Anders; potrebbe precisare che cosa intende con questo?

Potrei certamente farlo. Non lo farò dettagliatamente però, in quanto lei potrebbe incontrare delle difficoltà con la sua pubblicazione. Ritengo in ogni caso indispensabile intimidire coloro che detengono il potere e minacciano noi (un <<noi>> di milioni). Non ci resta altro che restituire la minaccia e rendere innocui quei politici che incoscientemente accettano il rischio della catastrofe o che la preparano direttamente. Già la semplice minaccia potrebbe forse, speriamo, avere un effetto intimidatorio. Del resto già uno si è definito <<spada>>, e nessun cristiano avrebbe l’audacia di chiamarlo <<agitatore>>.

Che cosa consiglia ai giovani che cominciano ora a capire quel che può significare la catastrofe atomica? Che cosa possono fare?

Questa è la domanda cruciale: la violenza non è più solamente permessa, ma è anche moralmente legittimata fintanto che essa viene usata dal potere costituito. Il potere stesso, da sempre, si fonda sulla possibilità di esercitare la violenza.

Nel 1939 fu ovvio per chiunque prender parte alla guerra e <<diventare violento con>>; se in quel caso si fu coinvolti, si era fatto <<soltanto il proprio dovere>>, come sottolinea volentieri un certo presidente. Su ordine del potere non solo si può essere violenti, ma addirittura si deve e si è obbligati ea esserlo. A noi uomini di oggi, non interessati ad altro che ad impedire definitivamente ogni violenza, viene invece rimproverato anche il solo fatto di pensare all’uso della violenza; sebbene in verità, quando noi la prendiamo in considerazione, non miriamo a nient’altro che alla situazione della non-violenza, cioè alla situazione che Kant ha definito <<pace perpetua>>. Una cosa è certa: per noi la violenza non puoi mai essere un fine. Ma è innegabile che la violenza debba essere il nostro metodo, se col suo aiuto e soltanto col suo aiuto può affermarsi la non-violenza. […]

Günther Anders discute con Manfred Bissinger (1986)

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Andare

È morto così, tentando il gesto più bello per riprendere in mano la poca vita che gli restava da vivere.

Un uomo di 91 anni della provincia di Lecce ha provato a scappare da quella che la lingua edulcorata delle istituzioni chiama Residenza Sanitaria Assistenziale – ovvero un ospizio, un parcheggio per anziani –, in provincia di Pavia, calandosi dalla sua stanza al primo piano tramite un tubo di gomma di quelli usati per l’irrigazione. Le mani però hanno ceduto e le lesioni riportate gli sono state fatali.

Contadino, abituato a vivere all’aria aperta, non accettava di morire chiuso in una stanza, tra altre persone che attendevano la morte nella routine di un solitario con le carte, le ore scandite dai pasti e dai farmaci, e qualche pannolone da cambiare. Ha scelto la dignità della fuga e della riappropriazione di se stesso, e sebbene le cose siano andate male, ha avuto quanto meno il merito di provarci; fulgido esempio di non rassegnazione, in un’epoca in cui siamo abituati ad accettare in silenzio qualunque restrizione alle già poche libertà che ancora ci vengono concesse, al massimo mugugnando nel chiuso delle nostre stanze.

Lui no. Ha atteso il cambio turno degli infermieri, ha aperto la finestra, ed è andato…

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Per una maggiore lotta contro il fascismo

IL NOSTRO ANTIFASCISMO

L’antifascismo nostro non è uno solo, onde incontriamo una camicia nera, o azzurra od anche rossa o di qualsiasi altro colore e che nasconde fini reazionari e tirannici, lì abbiamo il nostro bersaglio. Il luogo di combattimento non è solo l’Italia, ma qualsiasi altra nazione, compresa anche la Russia di Lenin e i suoi eredi. Ma quando da una frazione di uomini sorge una idea pura con l’unico scopo di emancipare e di emanciparsi, senza mire autoritarie per il domani e che del passato nulla ha rimproverarsi; noi benché seguitando i nostri mezzi di lotta, benché non lasciandoci fuorviare da questa idea, non possiamo fare a meno di ammirarne e riconoscere le doti.

Ammirammo gli Irlandesi in lotta con l’Inghilterra, ci solidarizzammo con i suoi martiri; liberi da ogni patriottismo e da rancori di razze, siamo tuttora dal lato di ogni popolo che tenta di emanciparsi dal dominio di altre nazioni: contro l’Italia in favore dei libici, contro Francia e Spagna in favore degli abitanti del Riff, sempre per la libertà di tutti, sempre contro le dominazioni, preparando il terreno per il domani nostro, per il domani della società anarchica.

Il fascismo domina, tiranneggia e assassina in Italia, per questo lo combattiamo e non perché siamo italiani. Non facciamo rivendicazioni di nazionalità, facciamo questioni di libertà, lottiamo per disperdere qualsiasi vestigia di violenza sull’uomo. Non pieghiamo davanti alla reazione, in qualsiasi forma essa si presenti. Teniamo ben alta la nostra bandiera di ribellione contro ogni sopruso, contro qualsiasi tiranno o dittatore. Per questo nel fascismo vediamo l’idea più nefasta che sia esistita. Miscuglio di tradimento e di bigottismo, di spionaggio e di corruzione, di malafede e di sobillamento, di cattiveria e di falsità. Cerchiamo di abbatterlo definitivamente estirpandolo dalla faccia del mondo. Ogni mezzo sia buono, ogni atto venga appoggiato, tutte le armi si affilino, ogni forza sia adoperata per eliminarlo con tutte le sue fogne malsane. (…)

COME BATTERSI?

Non bisogna nascondersi la potenzialità interna del fascismo, esternamente potrà sgretolarsi al primo urto contro un avversario agguerrito, perché gran parte dei suoi “eroi” è racimolata tra gli imboscati dell’ultima guerra ed altra tra “valorosi” soliti a battersi contro nemici disarmati; ma internamente esso poggia su una forte attrezzatura militare e poliziesca. In quanto alle grandi masse popolari e proletarie, esse sono ancora troppo terrorizzate e avvilite e troppo ancora risentono di tradimenti prossimi e lontani per poter rispondere al primo appello insurrezionale. Le ultime leggi repressive e il domicilio coatto hanno poi ancora di più indebolite le resistenze attive e intelligenti. Conseguentemente il pensare oggi ad un assalto frontale è temerario e potrebbe risolversi in quella strage che il fascismo anela compiere per meglio assicurarsi il potere. D’altra parte, contro il fascismo, solo l’azione può servire. Agire, si deve, per batterlo e per creare quelle condizioni di sgretolamento che renderanno possibili movimenti su più larga scala e generali. Suggeriamo perciò, in Italia e fuori, a tutti coloro che vogliono molestare, fino a fiaccarlo, il nemico, la guerriglia autonoma e per ordine sparso, di piccole entità più difficilmente raggiungibili e identificabili. Nei diversi ambienti e tra i diversi ceti si formino ristretti comitati o gruppi di azione. Non è detto che ognuno debba compiere necessariamente atti violenti; ognuno compia invece quegli atti, di offesa al nemico, possibili, date le attitudini, le capacità e i mezzi dei componenti un determinato gruppo costituitosi per affinità e per reciproca fiducia. Che ciascun gruppo faccia e compia la sua parte di azione senza chiedersi quello che faranno gli altri gruppi. Tutti diritti allo scopo unico. E poiché il nemico vigila attento e insidioso, che ciascun comitato e gruppo di azione conosca e controlli i propri componenti.

Troppi rinnegati di tutti i partiti – gente certamente ieri di fede mentita – il fascismo, pagando, ha chiamato a sé ed è presumibile che esso tenti attraverso così loschi elementi di organizzare complotti e tranelli simulando a sua volta l’esistenza d’identici gruppi. È perciò necessaria la massima cautela. Così pure bisogna prevenire l’opinione pubblica che è possibilissimo che il fascismo, in Italia e fuori, faccia commettere dai suoi sicari atti bestiali e nefandi per poi attribuirli ai suoi avversari. In quanto ad una possibile intesa tra i diversi gruppi, sia pure nella stessa città, noi siamo del parere ch’essa non è urgente al momento, potendo risultare imprudente e pericolosa, mettendo troppi elementi alla mercé di eventuali traditori. Se una vasta intesa per una comune azione – e non certamente con quegli equivoci elementi che il fascismo cullarono e che vorrebbero tornare a quel passato che del fascismo fu padre amorevole – dovrà realizzarsi, essa maturerà automaticamente e logicamente quando gli avvenimenti matureranno. Per oggi, ripetiamo, è raccomandabile che i gruppi d’azione si moltiplichino, non lasciando riposare il nemico, pronti alle necessarie rappresaglie, ma svolgendo un’azione autonoma. E se da una tale azione dovrà risultare una lotta spietata e senza quartiere, nessuno sgomento. Così il fascismo ha voluto, così deve essere, così sarà!

Severino di Giovanni

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Cineforum anti tech

Giovedì 29 aprile ore 19:00                                                      IDIOCRACY di M. Judge, 2006                                            Una commedia sulla catastrofe: umana, naturale, culturale, sociale…

Giovedì 6 maggio ore 19:00                                   THOMAS IN LOVE di P.P.Renders, 2000                         Il computer diventa la totalità del mondo e lo annulla

Giovedì 13 maggio ore 19:00                                               LO AND BEHOLD, Reveries of the connection world, di W.Herzog, 2016                                                                Film – documentario in cui si riflette sull’impatto della tecnologia (internet, intelligenza artificiale, internet delle cose) sulla vita umana.

Biblioteca anarchica disordine, via delle anime 2/b Lecce

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                                                Nella Cina odierna è impossibile immaginare che un individuo                                                            possa sopravvivere in una città cinese senza smartphone.             Chen Qiufan

Pechino, marzo 2019. Mentre faccio colazione a casa, su WeChat controllo le notizie del giorno. Poi esco e, mentre cammino per gli hutong (le antiche viuzze della capitale che sopravvivono ai tanti cambiamenti in corso nella città), con WeChat prenoto il taxi per andare a un appuntamento in un bar del distretto dell’elettronica della capitale cinese. All’interno del bar, grazie all’Id di WeChat metto lo smartphone in carica in appositi cubicoli all’ingresso del locale e incontro la persona con cui ho appuntamento. Poi recupero lo smartphone e pago la mia consumazione con WeChat. Ho fame, così appena uscito cerco con l’applicazione un ristorante mongolo nelle vicinanze. WeChat me ne indica uno a poche centinaia di metri dalla mia posizione, all’interno di un centro commerciale. Quando arrivo, mi metto in coda. Mentre attendo il mio turno per entrare, con WeChat controllo il menu e ordino. Mentre mangio, mando ad alcuni amici il Qrcode del ristorante: si tratta di buoni sconto appena ottenuti grazie al mio pranzo. In risposta ne ricevo anche io: buoni per ristoranti, locali e per i tanti mercati on line presenti nell’app. Mi incuriosisce un negozio di robot: scarico il «mini-programma» dello store virtuale e comincio a guardare il catalogo mentre pranzo. Finito di mangiare, pago con WeChat. Nel frattempo scambio messaggi, ricevo documenti, prendo altri appuntamenti: tutto con la stessa app.

Esco dal centro commerciale e controllo sulla mappa di WeChat la zona dove devo andare per un altro appuntamento. Calcolo il percorso: prendo un autobus e poi la metropolitana e in entrambi i casi pago con WeChat. Nel frattempo acquisto on line i biglietti per un film da vedere l’indomani e e spedisco dei soldi che dovevo a una persona, sempre via WeChat. Terminato il mio appuntamento esco e mi fermo davanti a un piccolo negozio di pochi metri quadrati gestito da una coppia cinese del sud, compro dei ravioli che pago con WeChat, grazie al Qrcode appeso accanto alla porta che conduce alla piccola cucina. Poi con WeChat prenoto un biglietto del treno per Shanghai e la stanza di un hotel. Infine vado a un evento in uno dei grattacieli sulla Jianguomen, la lunga via che porta su piazza Tien’anmen. L’invito mi è arrivato via WeChat da un’amica, quando ancora ero in Italia: nella nostra chat ritrovo localizzazione, biglietto elettronico e ricevuta di pagamento (che archivio in un’apposita applicazione, sempre dentro WeChat, che aiuta a gestire la propria contabilità). Giunto sul luogo scannerizzo il Qrcode e ricevo tutta la documentazione relativa all’evento (una conferenza sui rapporti tra Cina e USA). Insieme alla documentazione, mi ritrovo in un gruppo con tutti i presenti (i contatti li inserisco in un’apposita app dentro WeChat che consente di gestire al meglio tutte queste informazioni).

Al termine della conferenza, vado a cena con alcuni dei partecipanti. A un certo punto tutti i nostri occhi finiscono sul cellulare: WeChat chiede l’update delle nostre informazioni. Ed eccoci, una tavolata intera impegnata a farsi selfie per consentire a WeChat di tenere sotto controllo i nostri dati biometrici. Quando terminiamo la cena, con WeChat dividiamo il conto in parti uguali. Tornando a casa ripenso al mio appuntamento della mattinata: nel distretto dell’elettronica, nella zona di startup legate all’Intelligenza artificiale, ho incontrato un giovane manager cinese. A un certo punto della nostra conversazione, all’ennesimo esempio di quanto WeChat faccia risparmiare tempo (le file in banca, negli uffici pubblici, al cinema e in migliaia di altri posti) gli ho chiesto a cosa sia dedicato tutto quel tempo guadagnato. «Forse a stare al cellulare», mi ha risposto sorridendo.

S. P., Red mirror. Il nostro futuro si scrive in Cina

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