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                                                Nella Cina odierna è impossibile immaginare che un individuo                                                            possa sopravvivere in una città cinese senza smartphone.             Chen Qiufan

Pechino, marzo 2019. Mentre faccio colazione a casa, su WeChat controllo le notizie del giorno. Poi esco e, mentre cammino per gli hutong (le antiche viuzze della capitale che sopravvivono ai tanti cambiamenti in corso nella città), con WeChat prenoto il taxi per andare a un appuntamento in un bar del distretto dell’elettronica della capitale cinese. All’interno del bar, grazie all’Id di WeChat metto lo smartphone in carica in appositi cubicoli all’ingresso del locale e incontro la persona con cui ho appuntamento. Poi recupero lo smartphone e pago la mia consumazione con WeChat. Ho fame, così appena uscito cerco con l’applicazione un ristorante mongolo nelle vicinanze. WeChat me ne indica uno a poche centinaia di metri dalla mia posizione, all’interno di un centro commerciale. Quando arrivo, mi metto in coda. Mentre attendo il mio turno per entrare, con WeChat controllo il menu e ordino. Mentre mangio, mando ad alcuni amici il Qrcode del ristorante: si tratta di buoni sconto appena ottenuti grazie al mio pranzo. In risposta ne ricevo anche io: buoni per ristoranti, locali e per i tanti mercati on line presenti nell’app. Mi incuriosisce un negozio di robot: scarico il «mini-programma» dello store virtuale e comincio a guardare il catalogo mentre pranzo. Finito di mangiare, pago con WeChat. Nel frattempo scambio messaggi, ricevo documenti, prendo altri appuntamenti: tutto con la stessa app.

Esco dal centro commerciale e controllo sulla mappa di WeChat la zona dove devo andare per un altro appuntamento. Calcolo il percorso: prendo un autobus e poi la metropolitana e in entrambi i casi pago con WeChat. Nel frattempo acquisto on line i biglietti per un film da vedere l’indomani e e spedisco dei soldi che dovevo a una persona, sempre via WeChat. Terminato il mio appuntamento esco e mi fermo davanti a un piccolo negozio di pochi metri quadrati gestito da una coppia cinese del sud, compro dei ravioli che pago con WeChat, grazie al Qrcode appeso accanto alla porta che conduce alla piccola cucina. Poi con WeChat prenoto un biglietto del treno per Shanghai e la stanza di un hotel. Infine vado a un evento in uno dei grattacieli sulla Jianguomen, la lunga via che porta su piazza Tien’anmen. L’invito mi è arrivato via WeChat da un’amica, quando ancora ero in Italia: nella nostra chat ritrovo localizzazione, biglietto elettronico e ricevuta di pagamento (che archivio in un’apposita applicazione, sempre dentro WeChat, che aiuta a gestire la propria contabilità). Giunto sul luogo scannerizzo il Qrcode e ricevo tutta la documentazione relativa all’evento (una conferenza sui rapporti tra Cina e USA). Insieme alla documentazione, mi ritrovo in un gruppo con tutti i presenti (i contatti li inserisco in un’apposita app dentro WeChat che consente di gestire al meglio tutte queste informazioni).

Al termine della conferenza, vado a cena con alcuni dei partecipanti. A un certo punto tutti i nostri occhi finiscono sul cellulare: WeChat chiede l’update delle nostre informazioni. Ed eccoci, una tavolata intera impegnata a farsi selfie per consentire a WeChat di tenere sotto controllo i nostri dati biometrici. Quando terminiamo la cena, con WeChat dividiamo il conto in parti uguali. Tornando a casa ripenso al mio appuntamento della mattinata: nel distretto dell’elettronica, nella zona di startup legate all’Intelligenza artificiale, ho incontrato un giovane manager cinese. A un certo punto della nostra conversazione, all’ennesimo esempio di quanto WeChat faccia risparmiare tempo (le file in banca, negli uffici pubblici, al cinema e in migliaia di altri posti) gli ho chiesto a cosa sia dedicato tutto quel tempo guadagnato. «Forse a stare al cellulare», mi ha risposto sorridendo.

S. P., Red mirror. Il nostro futuro si scrive in Cina

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Nuova rivista

Chrysaora. Rivista Anarchica Bimestrale n°1, marzo 2020, pag. 180. La rivista si compone di due parti:

La distruzione necessaria. Indice:

Editoriale; Ascoltare / Silenzio, bruciano le antenne / La tirannia della flessibilità / Contro lo smartphone / Immaginare il futuro / Hai giocato a fare il sole? / La dominazione materiale in epoca d’epidemia e la questione organizzativa / Come combattere il Google-Campus / Kropotkin, la rivoluzione russa e la miseria della politica / Introduzione a “L’ospite inatteso” / Gli ingranaggi del tempo

L’autonomia impossibile. Indice:

Editoriale / Silenzio assordante / Mappare il mondo / La landa desolata / Dall’AIDS al COVID / AIDS: la malattia come espressione delle fasi della civiltà / Scienza, Ragione e Cambiamento / La cultura della malattia / Il culto della carogna

Allegato alla rivista: Smartphone, libretto, pag. 100

 

Disponibile in Biblioteca, € 8

 

 

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Nuovo titolo in distribuzione

Lele Odiardo, Sempre primi nelle imprese più arrischiate.                                          Sabotaggi e colpi di mano delle prime bande partigiane in provincia di Cuneo,    ed. Il Picconiere, 2020, pag. 78, € 6

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Sudditi e suddite, state a sentire!

Sudditi e suddite, state a sentire!

A scrivere è chi comanda nel vostro territorio e chi comanda è chi ha soldi e potere. Sono sorpreso della vostra ingenuità. Pensavate di potervi opporre ad una grande opera, dietro la quale vi sono fiumi di denaro, interessi, potere.

E per un po’ di tempo, il rumore delle vostre proteste mi è arrivato. Si tratta ormai di qualche anno fa. Pensavo di finire l’opera in quattro e quattro otto e invece una manciata di cafoni, idealisti, ecologisti, alcuni senza Dio né padroni, gente che pretendeva di difendere la sua terra si è messa in mezzo.

Stava accadendo l’imprevisto. Il progresso – perché lo sapete che si chiama progresso, la devastazione della natura e il profitto che se ne ricava -, il progresso, si voleva fermare il progresso!

Ma che cosa potevate voi, manciata di ingrati, che non apprezzate le briciole che cadono dalle tavole dei potenti, che non accettate le compensazioni!

Altri, più furbi e decisamente più moderni, lo fanno. C’è chi venderebbe pure la propria madre in cambio delle briciole, di potere, di visibilità, di un po’ di denaro.

E voi invece testardi! Nell’indifferenza generale, perché dovete ammetterlo che la gran parte della gente se ne sta comodamente a casa o su facebook, voi vi siete messi in mezzo, sfidando i guardiani del potere, senza i quali, in effetti, poco si potrebbe fare.

Avete messo in mezzo i vostri corpi, avete gridato, sbraitato, manifestato, bloccato e avete pure sabotato.

Ma sudditi e suddite, io dalla mia ho la polizia, i carabinieri, la guardia di finanza, la polizia scientifica, i servizi segreti, e se serve anche l’esercito, l’aeronautica e la marina militare.

Eppure voi testardi, sempre lì, a dare fastidio, a tentare di mettere i bastoni tra le ruote.

Ora che avete capito che anche la giustizia dei tribunali è dalla mia parte – come poteva essere altrimenti? – spero vi darete una calmata.

Devo dire che anche io ho commesso un errore. No, non quello di aggirare la legge, di inquinare o imporre con la forza la mia presenza su un territorio. No, questa è la normalità delle grandi opere, la normalità del potere.

Il mio errore è stato non considerare l’imprevisto, e cioè esseri umani, pensanti, talvolta idealisti, talvolta senza Dio né padroni, che lottano, che rischiano, che odiano il potere.

E cioè non considerare che non tutti sono sudditi e suddite e che tutti potrebbero non esserlo.

E mi auguro fortemente che questi gesti non vengano comunicati né suggeriti, né attuati, perché che cosa accadrebbe se si diffondesse la pratica dell’odio verso il potere?

sudditi e suddite

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Dei diritti e delle pene

                                                                               E un giudice, un giudice con la faccia da uomo                                                                                        Mi spedì a sfogliare i tramonti in prigione                                                                                    F. De André, Un medico

 A furia di evocarla, si è manifestata realmente. Parliamo della Giustizia, naturalmente; quella stessa Giustizia che, a chiusura di tre processi a carico di circa un centinaio di manifestanti che si erano opposti alla costruzione del gasdotto Tap, ha chiuso la sua prima fase, condannandone una ottantina a pene comprese tra tre mesi e tre anni e due mesi.

Pare che queste condanne abbiano suscitato un certo scandalo, ed in molti sono addirittura arrivati ad accorgersi che un giudice faccia il lavoro da giudice, ovverosia condanni.

È lecito chiedersi cosa ci si aspettava, e soprattutto cosa si attendevano tutti coloro che da anni chiedono incessantemente che la Giustizia intervenga, salvo lamentarsi quando poi lo fa veramente. Perché, sia chiaro, la Giustizia è proprio quella che ha emesso la sua sentenza nella data del 19 marzo, ovvero uno strumento – fra gli altri – a difesa dell’ordine costituito. Oppure qualcuno pensava che un giudice imparziale avrebbe valutato correttamente i fatti e, se anche avesse trovato qualche irregolarità o indizio di reato, sarebbe sceso dal suo scranno per dare una pacca sulla spalla agli imputati, dicendo che in fondo non era poi così grave, e che anzi erano loro ad essere dalla parte della ragione, perché si erano opposti a un “mafiodotto”, a un’opera “climalterante”, ad un progetto “inutile e dannoso”? Suvvia, sarebbe stato quantomeno ingenuo pensarlo…

Forse allora bisognerebbe fare una riflessione, dopo che per anni ci si è appellati all’intervento della magistratura per bloccare l’opera, con tanto di sit-in fuori dal tribunale per provare a sollecitarla. Forse bisognerebbe riflettere sul cammino compiuto a braccetto delle istituzioni – sindaci, parlamentari, ecc. – per provare a contrastare il gasdotto, pensando al fatto che i tribunali altro non sono che l’organo giudiziario di quelle stesse istituzioni. Forse bisognerebbe fare una riflessione, dopo che sono stati invitati a sostenere la lotta dei giudici esattamente uguali a quello che ha emesso la sentenza; un giudice, come il troppo tardi defunto Imposimato, che è stato al vertice nel condannare migliaia di uomini che avevano tentato l’assalto al cielo in una lunga stagione di lotte, uomini come un bandito morto di recente che ora viene commemorato anche da chi ha invitato quel suo nemico. Forse, ancora, bisognerebbe fare una riflessione, quando si parla dei giornalisti che raccontano bufale e fanno da reggi moccolo alle opere del potere, mentre per anni sono stati invitati giornalisti, anche di provenienza fascio-leghista, a sostenere le ragioni della propria lotta.

Dovremmo prendere coscienza del fatto che non è possibile separare l’opposizione ad un tubo che trasporta gas da una più ampia opposizione, o quantomeno contrarietà, al mondo intero che vuole realizzare determinate opere; alle ragioni economiche, politiche e sociali che di quel mondo sono, nello stesso tempo, il fondamento e il riflesso.

                                               [Le leggi sono] gli obblighi che i più forti, i più fini e i più astuti,                      hanno imposto ai più deboli, al fine di mantenere le loro disastrose istituzioni,                              o anche per impedirne gli inconvenienti funesti nella misura del possibile.                         F. Boissel, 1789

Una certa indignazione si era manifestata, da parte del Movimento che si opponeva a Tap, all’indomani della sentenza di prescrizione per la strage di Viareggio, in cui era imputato, tra gli altri, l’ex country manager di Tap, Michele Mario Elia. Ora, a parte la spregevole pratica di augurare la galera a chicchessia, neanche quella prescrizione pare essere stata utile a far capire che il potere quasi mai condanna se stesso, ed anzi utilizza tutti gli strumenti a sua disposizione – compresi i cavilli legali – per autoassolversi e assolvere i suoi servi più fedeli.

Pensare di utilizzare il Diritto per opporsi a chi quello stesso Diritto stabilisce, impone e gestisce, conduce nello stesso vicolo cieco in cui finiscono le opposizioni alle grandi opere portate avanti per mezzo degli strumenti burocratici, politici e giuridici, come l’opposizione a Tap – quantomeno una certa opposizione – si è incaricata di dimostrare. È solo provando a distruggere o andare oltre, scavalcando quella concezione di Diritto, e quindi anche le concezioni e le strade burocratiche, politiche e giudiziarie, che si può tentare di percorrere fino in fondo una opposizione reale e incisiva ai progetti che ci vengono calati sulla testa, che si tratti di un gasdotto come di qualunque altra imposizione, come potrebbe essere una vaccinazione di massa.

Al di là di ciò, restano solo le geremiadi per condanne che si ritengono ingiuste o particolarmente severe, e la possibilità di racimolare denaro per pagare, presumibilmente, le multe che il Diritto ha appioppato.

Continuare le lotte quando le repressione colpisce, si diceva una volta, senza arretrare o rifugiarsi in questioni giuridiche. Ma questo è possibile solo qualora quelle lotte non siano state portate avanti sotto il profilo tecnico-giudiziario, auspicando interventi della magistratura per rilevare irregolarità o punire degli sbirri cattivi contro cui non accenna a voler procedere, perché in tal caso la strada è segnata in partenza.

Forse è da qui che bisogna ripartire.

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Nuovo titolo in distribuzione

Disponibile in distribuzione:

Armando Borghi, Mezzo secolo di anarchia (1898-1945), ed. Anarchismo, 2021, pag. 366, collana “Biblioteca di Anarchismo”, € 15

Uno dei libri più appassionanti dell’anarchismo. Lucido, semplice, senza fronzoli letterari. Una “memoria” delle lotte di mezzo secolo. Dalla propaganda col fatto alla Settimana rossa, dalla rivolta di Ancona all’occupazione delle fabbriche a Milano, dall’esilio alla lotta clandestina contro il fascismo. Una lettura che ha formato la generazione di anarchici precedente al 68 e che è stata sempre “riscoperta” con sorpresa da quei compagni formatisi alle esperienze successive. La continuità rivoluzionaria non ammette sospensioni. I metodi e le strategie si possono criticare e discutere, la lotta contro il nemico comune resta sempre valida e sempre da portare avanti.

 

Sono inoltre ora disponibili tutti i titoli della collana “Pensiero e azione”

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Libera persecuzione

Fra i decreti più rivoluzionari della moderna storia di Usalia si annovera quello mediante il quale la polizia veniva incaricata di assolvere tutti i doveri della malavita, e nel contempo anche i doveri della giustizia. Naturalmente l’accorpamento di questi tre rami d’attività evitava quegli inenarrabili sforzi che stanare, indagare, e condannare i colpevoli, avevano procurato in passato, per non parlare dei milioni di denaro pubblico che tutto questo era costato. La ricerca dei colpevoli aveva lasciato il posto a un obiettivo più urgente, ufficialmente definito «libera persecuzione» del potere esecutivo. Con tale espressione, che certo testimonia l’importanza della libertà nella Usalia dell’epoca, s’intendeva dire che spettava all’esecutivo, o meglio ancora all’establishment al suo interno, stabilire chi di volta in volta dovesse essere considerato colpevole – e spesso la cosa avveniva addirittura prima che il reato venisse commesso, poiché molte volte il potere esecutivo deliberava non soltanto quale persona, ma anche quale reato si dovesse compiere. E il crimine non doveva essere per forza commesso sempre dal colpevole designato: l’esecutivo in molti casi preferiva all’ultimo momento realizzare da sé l’azione delittuosa. Il significato di «libera persecuzione» implicava però che il colpevole designato aveva l’obbligo di presentarsi davanti ai contemporanei e ai posteri come colui il quale, cosa che naturalmente includeva lo scontare la pena per il suo crimine.

L’ordine che, con l’accorpamento dei tre settori, si diffuse in breve tempo in Usalia, sortì effetti strabilianti: mai, prima, politica, amministrazione e giustizia avevano collaborato senza attrito, niente veniva più abbandonato al caso, tutto si svolgeva secondo precisi programmi e tutti eseguivano gli atti previsti dalle delibere. Già dopo poco tempo diventò una consuetudine individuare gli attentatori (e naturalmente i loro vendicatori, altrimenti detti giustizieri) prima ancora che gli stessi rei – alla stampa venivano comunicati anche i loro nomi – potessero intuire che fosse imminente un qualsiasi reato, o tanto meno che erano stati prescelti per essere considerati e scontare così il loro crimine. E non di rado capitava addirittura che i malfattori patissero la pena di morte senza aver saputo prima di quale presunto misfatto fossero accusati. «Nessuno», si dice sia un principio del codice usalico, «nessuno ha il diritto di conoscere la propria ingiustizia». Può darsi benissimo che per il volgo, talvolta, tutto ciò possa essere stato amaro – quanto più dolce è il dover morire, se si sapesse per quale motivo si muore – ma la classe dirigente considerava questa istituzione come una vera e propria benedizione.

Perché grazie ad essa, infatti, erano solo questi concittadini plebei a cadere vittime del crimine, e dato che il loro decesso risultava ben gradito al potere esecutivo – o, meglio ancora, all’establishment, e dato che valeva lo stesso gradimento per le condanne inflitte a chi aveva o meno eseguito il crimine, questa istituzione era certo il risultato di un interminabile processo di autocorrezione della società usalica.

Del resto nel sistema è insita – non occorre affatto nasconderlo – anche una certa comicità. E per il seguente motivo: perché – come tutti potranno facilmente intendere, bisognava che in ogni singolo caso morissero due uomini, uno in quanto vittima e uno in quanto assassino, benché il più delle volte non importava come si dovevano assegnare i ruoli di vittima e reo, se far uccidere il signor A tramite il signor B e doveva far pagare per quest’omicidio il signor B, oppure l’opposto. È stato tramandato, e in modo attendibile, che talora i poliziotti usalici, poco prima di un attentato, fissato già da tempo, e definito in tutti gli altri minimi particolari, non avessero ancora stabilito a quale dei due morti «annunciati» assegnare il ruolo di vittima e a quale il ruolo di criminale; e che avessero trovato la risposta all’ultimissimo momento con un tiro di dadi.

Günther Anders, Lo sguardo dalla torre [1968]

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Venti di guerra

“Siamo in guerra contro un nemico invisibile”. Così si esprimevano, circa un anno fa, politici e tecnici dello Stato italiano. Ora le cose sembrano avere assunto maggiore chiarezza, e ben visibile è il nemico. Quel nemico siamo tutti noi.

La nomina a commissario per la gestione dell’emergenza di un generale degli alpini, con pregresse esperienze in zone di guerra quali Afghanistan e Kosovo, è l’ultimo tassello di una militarizzazione che invade ormai qualunque aspetto della vita.

Una militarizzazione manifestatasi con la gestione della pandemia e il portato, simbolico e pratico, del confinamento prima e del coprifuoco successivamente; col controllo capillare dei cittadini ad opera delle forze dell’ordine e con l’uso di un termine che richiama evidentemente una pratica di guerra.

Del resto, non è stato un vero e proprio atto di guerra quanto avvenuto un anno fa nelle carceri italiane? Quattordici detenuti ammazzati a colpi d’arma da fuoco e botte, rei di aver rivendicato la propria umanità e sopravvivenza attraverso la rivolta.

La ferocia di quegli accadimenti costituisce un chiaro messaggio verso tutti. Oggi non è più possibile alcuna rivendicazione, alcuna critica o rivolta: è solo possibile l’obbedienza.

Nel Salento lo abbiamo visto con Tap in tempi recenti: una vasta zona completamente militarizzata e uno schieramento ingente di forze dell’ordine a difesa di un’opera osteggiata da molti, ed un processo a carico di numerosi manifestanti che proprio in questi giorni arriva alla sentenza di primo grado. Il messaggio è chiaro: normalizzazione attraverso la forza.

Una “normalità” sempre più in tuta mimetica, costituita da militari schierati per effettuare tamponi, e da chi lavora anche in campo militare, come il neo-ministro per la transizione ecologica, Roberto Cingolani, ex dirigente di Leonardo-Finmeccanica, la più grande azienda italiana di armamenti. Prova tangibile che tra militare e civile non esiste più separazione alcuna.

Cosa serve ancora? Crediamo davvero di poterci definire “liberi” mentre accettiamo il ricatto della paura? E che la guerra non ci riguardi perché le bombe cadono lontano? E crediamo davvero che i futuri sviluppi ormai chiaramente individuabili – dalla digitalizzazione sempre più invasiva, alla patente vaccinale per poter viaggiare, all’obbligo di vaccini per poter lavorare in alcuni settori – non siano una ennesima misura di polizia contro le nostre già risicate libertà?

Crediamo davvero che tutte queste restrizioni, una volta inserite nella società, lo saranno solo in forma provvisoria?

Ancora una volta nella storia si tenta di eliminare qualsiasi voce avversa. Ancora una volta non vi sarà altra salute se non quella di pensare con la propria testa, essere consapevoli e agire di conseguenza.

Di tutto questo vogliamo parlare, per provare ad opporci fino a quando ancora ne avremo il tempo.

SABATO 13 MARZO, DALLE 18 ALLE 21

VIA TRINCHESE – ANGOLO TEATRO APOLLO – LECCE
INTERVENTI, MOSTRA, MATERIALE INFORMATIVO

Venti di guerra pdf

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In Biblioteca

Nuovi titoli disponibili per il prestito e la consultazione:

  • Il mondo a distanza. Su pandemia, 5G, materialità rimossa del digitale e l’orizzonte di un controllo totalitario, ed. Bergteufel, 2021, pag. 37
  • Jean-Pierre Cattelain, Obiezione di coscienza all’Esercito e allo Stato, ed. Celuc, 1976, pag. 203
  • Francesco Serantini, Fatti memorabili della banda del Passatore in terra di Romagna, ed. del Girasole, 1973, pag. 143
  • Anna Curcio (a cura di), Black fire. Storia e teoria del proletariato nero negli Stati Uniti, ed. Derive Approdi, 2020, pag. 143
  • Ernesto De Martino, Oltre Eboli. Tre saggi, ed. e/o, 2021, pag. 99
  • Hannah Arendt, Le origini del totalitarismo, ed. Einaudi, 2020, pag. LXXXII + 710
  • Franco Fortini / Lanfranco Binni, Il movimento surrealista. Gli autori, le opere, i testi, ed. Garzanti, 1991, pag. 284
  • Emidio Mosti, La resistenza apuana. Luglio 1943-1945, ed. Longanesi, 1973, pag. 283
  • Gunther Anders, Lo sguardo dalla torre. Favole con le illustrazioni di A. Paul Weber, ed. Mimesis, 2012, pag. 194
  • Gunther Anders, L’ultima vittima di Hiroshima. Il carteggio con Claude Eatherly, il pilota della bomba atomica, ed. Mimesis, 2016, pag. XXII + 231
  • Gunther Anders, Il mondo dopo l’uomo. Tecnica e violenza, ed. Mimesis, 2008, pag. 98
  • George Orwell, Omaggio alla Catalogna, ed. Mondadori, 2020, pag. 290
  • Manuel Tunon de Lara, Storia della repubblica e della guerra civile in Spagna. Vol. I, ed. PGreco, 2018, pag. 437
  • Manuel Tunon de Lara, Storia della repubblica e della guerra civile in Spagna. Vol. II, ed. PGreco, 2018, pag. 300
  • Gunther Anders, Patologia della libertà, ed. Palomar, 1993, pag. 129
  • Vittore Fiore (a cura di), Tommaso Fiore e la Puglia, ed. Palomar, 1996, pag. 726
  • AA. VV., Il processo di Norimberga Vol. II. Le vicende, i documenti, le condanne, ed. Res Gestae, 2013, pag. 307
  • Philippe Aziz, I medici dei lager. Vol. I. Josef Mengele, l’incarnazione del male, ed. Res Gestae, 2013, pag. 252
  • Philippe Aziz, I medici dei lager. Vol. II. Karl Brandt, l’uomo in camice del Terzo Reich, ed. Res Gestae, 2013, pag. 252
  • Philippe Aziz, I medici dei lager. Vol. III. Milioni di cavie umane. Vittime e torture di una scienza crudele, ed. Res Gestae, 2013, pag. 252
  • Christian Bernadac, Sterminateli! Adolf Hitler contro i nomadi d’Europa, ed. Res Gestae, 2013, pag. 279
  • Marc Bloch, La strana disfatta. Con gli scritti della clandestinità 1942-1944, ed. Res Gestae, 2014, pag. 212
  • André Brissaud, La notte dei lunghi coltelli, ed. Res Gestae, 2019, pag. 250
  • Alan Bullock, Hitler. Studio sulla tirannide, ed. Res Gestae, 2014, pag. XI + 516
  • Franco Catalano, L’Italia dalla dittatura alla democrazia 1919-1948, ed. Res Gestae, 2013, pag. 387
  • Vasilij Ivanovic Cujkov, Obiettivo Berlino. Memorie del generale che ha sconfitto il nazismo, ed. Res Gestae, 2013, pag. 233
  • Alfred Grosser, Hitler. Nascita di una dittatura, ed. Res Gestae, 2014, pag. 256
  • Erich Kordt, La politica estera del Terzo Reich, ed. Res Gestae, 2018, pag. 309
  • Jens Kruuse, Il massacro di Oradour. Il paese-simbolo della barbarie nazista in Francia, ed. Res Gestae, 2018, pag. 201
  • Luigi Longo, Un popolo alla macchia. Il diario, le memorie del grande combattente partigiano, ed. Res Gestae, 2013, pag. 438
  • Michal Reiman, La nascita dello stalinismo, ed. Res Gestae, 2018, pag. 257
  • Georges Roux, La guerra civile di Spagna, ed. Res Gestae, 2014, pag. 368
  • Enzo Santarelli, Storia del fascismo I. La crisi liberale, ed. Res Gestae, 2018, pag. XXVII + 397
  • Enzo Santarelli, Storia del fascismo II. La dittatura capitalista, ed. Res Gestae, 2018, pag. 439
  • Enzo Santarelli, Storia del fascismo III. La guerra e la sconfitta, ed. Res Gestae, 2018, pag. 375
  • Hjalmar Schacht, La resa dei conti con Hitler. Il libro più discusso del dopoguerra tedesco, ed. Res Gestae, 2019, pag. 307
  • Philip Short, Anatomia di un genocidio. Pol Pot e i crimini dei khmer rossi, ed. Res Gestae, 2020, pag. 665
  • Volin, La rivoluzione uccisa. Gli anarchici in Russia 1917-1921, ed. Res Gestae, 2015, pag. XVI + 574
  • Noemi Szac-Wajnkranc / Leon Weliczker, I diari del ghetto di Varsavia. Le storie dei coraggiosi che non si piegarono, ed. Res Gestae, 2013, pag. 270
  • Louis Wirth, Il ghetto. Il funzionamento sociale della segregazione, ed. Res Gestae, 2014, pag. 239
  • Donne al rogo. La caccia alle streghe in Europa, le enclosures e l’ascesa del capitalismo, s. e., 2020, pag. 39
  • F. H. A. R., Rapporto contro la normalità. 1971, s. e., 2020, pag. 58
  • F. H. A. R., Culi indiavolati & Distruggere la sessualità. 1973, s. e., 2021, pag. 66
  • Guy Hocquenghem, Scritti 1970-1980, s. e., 2021, pag. 78
  • Theodore John Kaczynski, Anti-tech revolution, ed. Sa Kàvuna, 2021, pag. 240
  • Voltairine De Cleyre, Una poetessa ribelle, ed. Stampa Alternativa, 2018, pag. 155
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Novità in distribuzione

  • Theodore John Kaczynski, Anti-Tech Revolution, ed. Sa Kàvuna, 2021, € 12;
  • I giorni e le notti n°12. Rivista anarchica, gennaio 2021, pag. 116, € 3,50
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