La perdita di tempo

Quando ieri (o forse l’altro ieri?) il primario, con un viso solenne e naturalmente senza che dalla sua bocca fossero uscite parole-tabù quali «pericolo» o addirittura «morire», mi spiegò il timore che non mi rendessi conto della «serietà» della mia condizione e che tuttavia (perché poi «tuttavia»?) si sentiva obbligato a richiamare la mia attenzione su di essa – dopotutto mi trovavo nel reparto di terapia intensiva -, io scrollai la testa e lo rassicurai che non ero io a non capire, ma che era al contrario lui che non mi capiva, e che non doveva certo sforzarsi di farlo perché capire una cosa del genere non era previsto dalla sua professione. Era troppo profondamente sconcertato per potersi subito indignare. «Che cosa intendete dire?», domandò. «Che invischiarmi in una simile perdita di tempo», risposi io, «come l’esser-morti, contraddirebbe il mio stile di vita. E che gli obbiettivi che devo ancora raggiungere, e che perciò non finiscono di tormentarmi, sono troppo importanti, e non ci sarebbe nessun altro che potrebbe scrivere i miei libri al posto mio ( e per di più la stesura di questi testi sarebbe per me davvero troppo divertente)». A quel punto si diede un colpetto sulla fronte. La mia irrispettosa qualificazione dell’esser-morti – che in fin dei conti, come lui voleva lasciar intendere, apparteneva esclusivamente al suo ambito professionale e certamente non al mio, inferiore -, come «perdita di tempo», gli sembrava non solo un’insolenza, ma addirittura un segno di confusione mentale. Ad ogni modo egli, subito dopo, si girò ostentatamente verso il giovane egiziano del letto accanto che diversamente da me «faceva il bravo», cioè sembrava morire volentieri o quantomeno aveva fatto del suo dover-comunque-morire un lavoro full-time che svolgeva con gran sollecitudine fin dal primo mattino. Naturalmente con lui il primario ebbe maggiori chance di venire riconosciuto nella sua monopolistica autorità.
Gunther Anders, Brevi scritti sulla fine dell’uomo
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Maglie a supporto della biblioteca

Maglie benefit a supporto della Biblioteca Anarchica Disordine. Costo 10 euro

Disponibile Bianca e Verde

 

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Nuovi titoli in Biblioteca

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Nuovi inserimenti in Biblioteca

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ARIA

C’è bisogno di aria per riprendere lucidità dopo più di due mesi di pensiero unico. Questo tempo di interruzione ci ha riportati in un mondo nuovo. Ma non il mondo rovesciato che sognavamo né quello libero cui aspiravamo; ci ha riportati all’inizio di un mondo in cui lo Stato ha centralizzato ancor di più le nostre vite, lo sfruttamento economico diventerà ancor più feroce e le disuguaglianze e contraddizioni saranno ancor più amplificate. È l’inizio di un mondo che realizza ciò che ha progettato per lungo tempo (un esempio: la scuola a distanza, che vede negli studenti non più o non solo contenitori da riempire di nozioni ma con qualche possibilità di confronto e scambio umano, ma solo automi da abituare all’elaborazione di dati, qualunque sia la materia che studiano). Per questo serve aria e la possibilità di incontrarsi, discutere, riflettere su ciò che sta accadendo e su ciò che si può fare.

Giovedì 28 maggio ci incontriamo presso Parco Corvaglia a Lecce alle ore 18, per l’ascolto di un episodio de “La nave dei folli”, la società cibernetica globalizzata che procede verso l’inevitabile naufragio, dal blog: lanavedeifolli.noblogs.org.

Un’occasione per soffermarci sul ruolo della medicina, il controllo sociale, la scienza, la natura e ciò che più ci preme.

ARIA

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Epidemie!

Gli arresti investivano case e strade intere a mo’ di epidemia. Come la gente si trasmette il contagio, senza saperlo, con una stretta di mano, il respiro, la trasmissione di qualche oggetto, così con una stretta di mano, il respiro, un fortuito incontro per la strada si trasmettevano il contagio di un immancabile arresto.

A. Solženicyn

L’ex deportato che scriveva queste righe una sessantina di anni fa, certo non immaginava quanto si sarebbero rivelate profetiche, seppure a parti capovolte. Nell’associare gli arresti di massa del totalitarismo bolscevico ad una epidemia coglieva perfettamente l’aspetto preponderante del totalitarismo democratico palesatosi in questi mesi, il quale ha approfittato di una epidemia per imporre un arresto di massa di carattere nazionale, sebbene all’interno delle proprie abitazioni, e per di più senza nessuna forma di resistenza che, invece, sempre accompagna gli arresti di massa e i totalitarismi.

Può sembrare azzardato paragonare i regimi totalitari a quelli democratici, e sicuramente i secondi sono privi di buona parte della brutalità che ha accompagnato i totalitarismi del Novecento, ma pur diversi nella forma, numerose similitudini sono invece nella sostanza; una sostanza che è fatta principalmente di controllo pervasivo ed ossessivo, dove le ronde sono state soppiantate dai droni e la propaganda ideologica ha invaso ogni anfratto della vita sociale, o per dir meglio social, tramite una enorme intromissione tecnologica i cui terminali sono nelle mani di ogni essere vivente occidentale. Un reticolato invisibile di migliaia di chilometri di fibra ottica opera senz’altro meglio dei carri armati agli angoli delle strade. Polizia e infamia degli zelanti cittadini, invece, sono rimasti praticamente uguali.

Un altro aspetto comune è la sparizione di alcuni cittadini. Se il totalitarismo bolscevico li faceva sparire nelle segrete delle carceri o nei sotterranei dei conventi, fucilati dalla Ceka e portati via in camion, cosa ricordano i camion militari che trasportano le bare di centinaia di morti, usciti vivi dalle proprie abitazioni e mai più rivisti dai loro cari? Alcuni di loro neanche mai identificati con nome e cognome, ma semplicemente con un numero. E le fosse comuni negli Stati Uniti non richiamano forse orrori che speravamo di non rivedere mai più? Esseri umani senza volto né nome, pura statistica…

L’arrestologia è una branca importante del corso generale di carceronomia e le è stata data un’importante base di teoria sociale.

A. Solženicyn

In un tale contesto, non meraviglia l’arresto di sette anarchici e le restrizioni imposte ad altri cinque, nel corso di un’operazione a Bologna dieci giorni fa. Si incarcerano dei compagni perché hanno solidarizzato con chi si è rivoltato in carcere in periodo di epidemia. All’arrestologia dei Ros dei carabinieri, è la stessa Procura bolognese che ha fornito un’importante base di teoria sociale, affermando che il suo intervento repressivo «assume una strategica valenza preventiva volta a evitare che in eventuali ulteriori momenti di tensione sociale, scaturibili dalla particolare situazione emergenziale [l’epidemia, appunto…] possano insediarsi altri momenti di più generale “campagna di lotta antistato”».

Per fortuna, in Italia, il totalitarismo è solo un ricordo lontano…

Epidemie pdf

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Lettera aperta di un corona virus agli abitanti della terra

Mi rendo conto che può sembrare strampalato ricevere la lettera di un virus, ma dal momento che continuate a nominarmi, ho pensato anche io di dire la mia. Me ne stavo tranquillo per conto mio in una bella foresta, convivevo con altri animali e non avevo creato alcuna pandemia. Certo in natura le cose non sono così regolari, la natura è profondamente selvaggia, però vi è un certo equilibrio di fondo secondo cui le cose procedono. Poi, voi umani, anzi alcuni di voi, hanno iniziato a deforestare, a tagliare alberi, in maniera disastrosa. Non potevo crederci. Veder buttare giù tutti quegli alberi! Così sono entrato in contatto con animali a voi più vicini. Li tenete ammassati, rinchiusi, li trattate come fossero scarpe. Li ingozzate di medicinali e poi li mangiate a chili. Che strana civiltà che siete! Avrei preferito non entrare in contatto con loro, ma voi, o alcuni di voi, gli specialisti, da alcuni decenni, più o meno dagli anni ’70, con quella che avete chiamato “rivoluzione verde” hanno convinto molti che bisognava allevare gli animali e la terra in maniera intensiva. Industrie vere e proprie che si espandono sempre più. Per poter far mangiare tutti questi animali che ormai sono più degli umani, dovete sottrarre terre agli altri esseri viventi e a voi stessi e così deforestate. Perverso! Inoltre questi allevamenti inquinano tantissimo e questo peggiora la vostra vita e vi fa ammalare. Che strana civiltà che siete!

Così, probabilmente, attraverso gli animali, sono entrato in contatto anche con gli esseri umani, che se la menano tanto ma poi non è che siano tanto diversi dai virus! Molta gente è morta! Anche in questo caso, non potevo crederci. Ho visto metropoli ammassate e inquinate, e la mia circolazione è stata più veloce. E nonostante ciò, chi vi comanda, ha continuato a tenere le fabbriche aperte comprese quelle di armi! E allo stesso tempo vi impediva di fare una passeggiata al parco, o in montagna, o al mare anche da soli. Vi impediva di prendere sole, di prendere aria, di rinforzare le vostre difese immunitarie. E molti di voi gli hanno dato pure ragione. Che strana civiltà che siete!

Vi hanno fatti stare in casa, a trangugiare paura e numeri, a terrorizzarvi facendovi vedere solo morte e malattia. Vi hanno vietato di incontrare le persone a cui tenevate. Qualcuno è rimasto da solo e ha preferito andarsene via da questo mondo assurdo senza più contatti umani. Vi hanno riempito la testa sulla mia pericolosità e poi hanno “dimenticato” di fornire tutte le protezioni adeguate a chi entrava in contatto con me. Li conoscete no? Medici, infermieri, ecc. Hanno continuato a dire che ad ammalarsi erano soprattutto gli anziani e anziché proteggerli, soprattutto quelli che si trovavano nelle strutture residenziali, li hanno abbandonati o non sono riusciti a tutelarli. Hanno trasformato un problema sanitario in una guerra con tanto di sceriffi , militari, check point, repressione; vi hanno colpevolizzati e criminalizzati e considerati degli inetti.

E i bambini e i ragazzi! Quanta tristezza ho provato nel vederli rinchiusi in casa, i bambini che sono argento vivo, per fortuna! Neanche una parola per loro, sacrificati con disprezzo, anzi un po’ vi stavano pure sulle palle, perché li credevate subdoli portatori di contagio. In fondo, non ho capito tutta la vostra paura di morire. Come se la morte prima non ci fosse, come se non ci siano cause di morte ancor più letali di me (vi dice qualcosa l’inquinamento?). Non ho capito perché secondo voi, per paura di morire, bisogna rinunciare a vivere. Mi sembra che così morirete due volte! Forse perché accumulare merci, in fondo non vi rende felici, e se non è la felicità il vostro scopo, che tipo di vita conducete? Che strana civiltà che siete! Vi ricordate la bomba atomica? Ha annientato migliaia di persone con effetti devastanti. È stata realizzata da un progetto di ricerca. Qualcuno ha pensato che quella sia stata la fine dell’umanità. Che in quel modo l’essere umano si sia dato la zappa sui piedi per sempre, non essendo più in grado di prevedere gli effetti di tutte le sue azioni. Oggi qualcuno dice che io possa essere uscito da un laboratorio. Vi ho detto all’inizio come è andata secondo me, ma mi preme dirvi che ci sono uomini e donne che lavorano per distruggere l’umanità e gli altri esseri viventi, non per favorirla, né per proteggerla, né per farla stare bene. Agiscono per indebolirla, sottometterla, renderla schiava, farla ammalare e poi curarla, all’infinito. Agiscono solo per ricavare un profitto, da ogni cosa, da ogni aspetto della vita, della morte, della natura. Si chiamano Economia, Finanza, Stato, Tecnocrazia o Scientocrazia e nonostante sembrano invincibili, perché protetti da un gran numero di guardiani, compresi quelli che vi hanno fermato in questi mesi, non lo sono affatto. Ci sono stati periodi nella storia, in cui hanno tenuto completamente in scacco l’umanità, altri in cui il terrore che hanno seminato gli è stato restituito. Vorrebbero che voi foste solo carne da macello, pezzi di ricambio. Altro che siamo tutti sulla stessa barca! Ma voi siete esseri viventi, come gli animali, le piante, non robot, come vorrebbero farvi diventare e fortunatamente non siete del tutto prevedibili come algoritmi. Forse, una possibilità che avete è quella di non ammalarvi più. Ma non di corona virus; credo che se non si correrà ai ripari, smettendo di inquinare, devastare la natura, accatastare le città, spostarsi con velocità da una parte all’altra del mondo, costruire macchine, macchine, macchine, altri virus, come me torneranno. E non ci sarà vaccino che tenga. Quando avrete riconosciuto il virus dell’autorità e del profitto, e lo avrete isolato e debellato, allora si, forse avrete ancora la possibilità di abitare questa terra e, chissà, anche di essere felici!

Covid – 19

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Interruzioni

Che la vita sociale si svolga a distanza, in fondo, non è una novità. Ormai da tempo le persone vengono persuase che il modo migliore per comunicare e avere relazioni sia quello che utilizza un dispositivo. Protesi dell’essere umano, lo smartphone e i suoi affini, hanno trasformato i modi di stare assieme, di informarsi, imparare, comunicare, scrivere, leggere. Il passo successivo è una robotizzazione del vivente, la tecnica che pervade ogni luogo, ogni aspetto della vita quotidiana. Un superamento della natura e del naturale a favore di esseri e luoghi artificiali. Uno scenario simile non ha bisogno di vita sociale, non ha bisogno di relazioni, emozioni, pensieri, ha bisogno solo di ordine, disciplina, regolamentazione, macchine. Forse ora il Dominio prova a fare un passo in avanti e utilizza un problema sanitario, la diffusione di un virus, per arrivare quanto meno ad un’irreggimentazione generalizzata, il resto poi andrà da sé. Viene in mente la fantascienza, ma gli Stati hanno strumenti ormai lontani secoli a cui attingere senza dover ricorrere all’ignoto. Il distanziamento sociale imposto per legge che prevede il divieto di baci e abbracci e la soppressione della gran parte delle attività sociali, ricorda gli stati d’emergenza, in cui si impongono regole di vita sociale da rispettare per non incappare in denunce e arresti. E in effetti la istituzione di zone rosse e di postazioni di controllo, la limitazione della libertà di circolazione, l’obbligo dell’isolamento domiciliare per chi provenga da zone considerate infette con possibilità di controllo da parte delle forze dell’ordine, ma soprattutto il divieto di assembramenti, cioè di riunioni pubbliche, è la gestione poliziesca di una problematica sanitaria. Non a caso nelle dieci regole consigliate dallo Stato italiano per evitare la diffusione del virus, si prevede che in caso di febbre si debbano contattare prima i carabinieri. Ma gli stati d’emergenza sono le misure previste anche in situazioni di conflitto o insurrezionali, come accaduto di recente in Cile. Lo Stato decreta per legge che i cittadini sono sua proprietà e può disporne come meglio crede. Non è per questioni sanitarie, né di benessere della popolazione che si impongono gli stati d’emergenza, ma per far introiettare regole, infondere disciplina. E in effetti, per ottenere obbedienza, il modo più sicuro è quello di spargere terrore, diffondere paura. Creare ansia e panico, divulgare continuamente dati, rendere tutto sensazionalistico ed eccezionale. Incutere paura è una pratica di guerra e di tortura, nonché di governo e anche in questo gli Stati sono specializzati. E la guerra è ritornata prepotentemente in auge dopo essere stata allontanata e cancellata per lunghi anni. Oggi la guerra è qui, anzi ovunque. I capi di Stato si dichiarano in guerra contro un nemico alquanto singolare, un virus, ma non è lui il loro avversario né il loro obiettivo, ma i loro stessi sudditi.

Per tale motivo la questione in gioco, forse più importante, è quella di tenere vivo il pensiero critico, senza minimizzare nulla. Dopo aver, a braccetto con l’Economia, industrializzato e devastato la natura, desertificato il pensiero, ora si annullano le emozioni. Niente baci, niente abbracci.

Tuttavia, se il Dominio ci vuole totalmente dipendenti da sé, se lo Stato cancella la vita sociale e in parte anche economica, ciò significa che non abbiamo bisogno dello Stato. Che possiamo autorganizzare le nostre iniziative, le nostre forme di educazione, le nostre economie, i nostri svaghi. E anche in questo caso non abbiamo bisogno di ricorrere alla fantascienza ma all’esperienza, alla memoria, alla volontà e al coraggio.

Uno dei modi ce lo stanno suggerendo i detenuti in lotta nelle carceri italiane che questo stato d’emergenza vorrebbe sepolti vivi. E che la normalità sia interrotta si, ma dalla rivolta.

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Il tempo che viviamo

L’infamia è il tratto distintivo del tempo che viviamo. Rendersene conto non è difficile: basta sollevare gli occhi dallo smartphone e guardarsi attorno, gettando uno sguardo sulla realtà che ci circonda e in cui siamo immersi.

Restare indifferenti di fronte ai conflitti che divampano nel mondo, con tutto il loro carico di migliaia di morti e milioni di sfollati, credendo che la faccenda non ci riguardi, perché viviamo nella parte “non belligerante” del pianeta, per esempio, è segno d’infamia. Perché la guerra in corso investe ormai da molti anni l’intero pianeta, e la parte non colpita dalle bombe è quella in cui queste si fabbricano, gli eserciti si addestrano per andare a massacrare o insegnare a farlo ad altri eserciti, e negli aeroporti vicino a noi si addestrano i piloti dei bombardieri di quelle guerre…

Non vedere la sofferenza di quei milioni di profughi, costretti a vagare per il pianeta in cerca della propria sopravvivenza, disposti a rischiare la vita nell’attraversamento di deserti e mari, in balìa di chi specula su quella sofferenza è anch’esso segno di infamia. Perché le condizioni di questa sofferenza sono state create nell’Occidente che viviamo, e le barriere che gli Stati apparentemente lontani da noi hanno eretto – come Libia o Turchia – sono state finanziate dai governanti che noi abbiamo eletto.

Gioire quando la gente muore nei mari o nei deserti, o quando arriva in Europa ma viene espulsa per la mancanza dei giusti documenti – conseguenza della sua condizione di povertà –, così come quando viene rinchiusa nei lager italiani chiamati CPR, è anch’esso segno d’infamia, così come infami sono tutti i discorsi reazionari e xenofobi sulla bocca di molti di quegli italiani brava gente, riflesso del pensiero infame dei loro governanti e delle loro politiche di esclusione e di discriminazione verso stranieri, poveri, omosessuali, donne e “diversi” in genere.

Ecco allora che non meraviglia che un infame come il defunto monsignor Ruppi, arcivescovo di Lecce per due decenni e gestore, per mano del suo degno scagnozzo don Cesare Lodeserto, di uno dei più infami lager per stranieri poveri d’Italia, il CPT “Regina Pacis”, venga seppellito nel Duomo di Lecce, così come aveva chiesto prima della sua tardiva morte nel 2011, e le sue spoglie siano state traslate proprio in questi giorni nella cattedrale leccese.

Lo svolgersi della Storia in senso sempre più orwelliano vorrebbe cancellare le nefandezze, le violenze, gli abusi e le botte che nel “Regina Pacis” sono stati perpetrati per anni, e trasformare un infame in un santo. Noi, per quanto ci riguarda, non siamo disposti a dimenticare.

Ma in fondo la sua sepoltura nel Duomo leccese non può neanche infastidirci. Anzi.

Sarà più agevole, per noi, sputare sulla sua tomba.

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Abbattiamo i muri del potere

Sembra ormai norma che “Lecce città del turismo” non tolleri più alcun dissenso. Una città ormai del tutto gentrificata sinonimo di una città controllata. I muri eretti in seguito allo sgombero della nuova occupazione anarchica nel centro storico, in un edificio di proprietà comunale, parlano da soli. Al di fuori del consumo, nulla è concesso. E il centro storico di Lecce è ormai totalmente luogo di consumo, tra bar e ristoranti, locali alla moda e negozi di lusso, alberghi e B&B. Per i residenti di un tempo, additati perché abitanti del centro storico, non c’è più posto. Per i refrattari, di qualsiasi tipo, non c’è più posto.

I muri si ergono per chi non si adegua o è diverso: che sia un immigrato vissuto occupando alle Giravolte per più di vent’anni, o chi vuole prendersi uno spazio per esprimere le sue idee e i suoi desideri. Quei muri sono l’esatta espressione del potere. Che si chiami Noi con Salvini o si chiami Noi con Salvemini (sindaco di Lecce), di fatto i processi portati avanti sono gli stessi. Con brutalità il primo, con il sorriso il secondo, sicurezza e decoro sono la parte centrale dell’agenda del potere. Agenda che significa sempre più polizia nelle strade, TSO, annientamento della vita sociale, espulsione degli indesiderati, controllo totale, omologazione. Perché tutto è collegato e non è possibile sentirsi estranei. Soltanto chi ha gli occhi chiusi non può accorgersi di quanto e come stia cambiando questo territorio, di quanto e come le persone che lo abitano siano sempre più spossessate della loro esistenza. Si eradicano alberi e si cancella il paesaggio, sostituito con impianti, centrali e cemento. Si chiudono spazi per eradicare il pensiero critico, il dissenso, la ribellione. Per via poliziesca o per via burocratica, l’Autorità vuole solo affermare se stessa e il suo totalitarismo. Questo  concetto base di uno Stato di polizia è, in fondo, anche il concetto base di uno Stato democratico e di chi lo amministra. Il resto sono chiacchiere da bar.

Ma se i muri vengono eretti la cosa più semplice e più urgente da fare è abbatterli, qualsiasi cosa essi rappresentino. Confini, morale, annientamento del pensiero critico. Eradicare la refrattarietà della natura selvaggia, così come di quella antiautoritaria, non è poi impresa facile.

“Abbattete, abbattete sempre, perché tanti più abusi eliminate al presente, tante soluzioni egualitarie preparate per l’avvenire”.

E. Cœurderoy

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