Quattro e centocinquanta

«Egregio signor Maestro mio figlio non può iscriversi per i Balilla siamo poveri e non abbiamo bisogno di odio».

È il messaggio che un uomo negli anni ’30 ha scritto per l’insegnante del figlio, un messaggio che si potrebbe scrivere ancora oggi. Non abbiamo bisogno di odio. Non di quell’odio contenuto nella lingua di Stato, quella che ammazza con la freddezza tipica della burocrazia, quella che tende a giustificare anche l’ignominia più grande. Una lingua a cui non prestiamo neanche più attenzione, talmente siamo assuefatti ad ascoltarla in maniera ininterrotta senza riflettere sul suo reale significato. Quella lingua che descrive l’uomo con un colore diverso della pelle rispetto al suo, se povero, come “carico residuale”, come scarto da destinare in discarica. Una lingua che non si ferma davanti a nulla, neanche davanti ai piccoli corpi di bambini morti, allineati uno accanto all’altro, perché in fondo anche quella contabilità è, per molti, questione unicamente burocratica. Si tratta di numeri che già domani andranno a rimpinguare statistiche, non di poveri disgraziati annegati mentre avevano davanti agli occhi la speranza: quattro giorni di navigazione e la costa a soli 150 metri. Ma alla severità linguistica della burocrazia non frega nulla dei poveri disgraziati. Non si chiede quanto sia lunga una notte col terrore tra le gambe. Non le importa se un viaggio possa costare la vita, perché essa viaggia con voli di Stato.

Eppure quella lingua non sorge dal nulla in maniera asettica, ma è l’espressione di un ben preciso pensiero: quello del Dominio, che a sua volta è incarnato in uomini e donne che hanno un volto, non sono solo parole che feriscono.

Ecco allora che l’odio può tornare utile, ecco che ne abbiamo bisogno; di un odio sano che non sia frutto di quello seminato dai potenti per giustificare la guerra tra poveri, ma che identifichi distintamente il reale nemico. Che trabocchi dal cuore e spinga ad armare i propri desideri, perché l’odio può essere un nobile sentimento che non dà pace, contrariamente all’indifferenza che lascia tranquilli a fissare lo schermo del proprio smartphone passando da un naufragio al gossip con la stessa intensità emotiva.

Incanalato nella giusta direzione, abbiamo bisogno di odio, che ci aiuti a non dover solo bagnare di lacrime questi fogli su cui scriviamo…

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Il recinto della Libertà

                                        «Per esprimere il proprio pensiero per strada bisogna chiedere il permesso al questore»                         Vincenzo Spagna detto Enzo, agente della Digos di Lecce

Sono molti i motivi dell’inquinamento che affligge il pianeta, e tra questi uno poco considerato: la vita di molti individui che, per la loro essenza e il loro pensiero, sono di fatto consumatori abusivi di ossigeno. Può sembrare causa di poco conto ma non lo è affatto se consideriamo che questi uomini non sono pochi e formano, al contrario, legioni.

Tra essi compare a pieno titolo l’agente della Digos citato in esergo. Cos’altro pensare di un essere che, convintamente, afferma un tale pensiero? E di quell’altro che, dall’alto del suo acume investigativo, dichiara che gli anarchici si riconoscono «dall’abbigliamento e dall’atteggiamento»? Ascoltando certe affermazioni riecheggia una certa nostalgia per la ginnastica del sabato, obbligatoria qualche decennio addietro, oppure è semplicemente l’introiezione del motto che campeggia sulla Questura di Lecce, loro luogo di lavoro: «Tutto nello Stato, niente al di fuori dello Stato, nulla contro lo Stato».

O forse no. Forse, con buona pace del clamore e degli applausi riscossi da un ex comico sul palco della canzone italiana, a difesa dell’art. 21 della Costituzione sulla libertà di pensiero, nella mente dell’agente della psicopolizia è contenuto un altro fondamento: quello dell’autorità. È proprio di ciò che deve trattarsi, perché l’autorità incarna esattamente questo: la forza coercitiva che può concedere o revocare delle libertà, a seconda che siano in contrasto con gli interessi e i privilegi dell’autorità stessa, e comunque quelle libertà devono rientrare nel perimetro di quelle autorizzate, mai al di fuori. Liberi di pensare, sì, ma entro un recinto ben delimitato dai codici statali, entro un ben definito e classificato ventaglio di pensieri che si possono avere. Si tratta dell’estensione della galera all’intero corpo sociale, se è vero che l’etimo latino “carcer” significa, appunto, recinto. Oltre c’è il manganello. «Si abitui ad essere controllato», ha infatti chiarito sempre lo stesso Digossino ad un compagno. Appare evidente come le chiacchiere su Costituzione e art. 21 siano semplice cortina fumogena.

Un compagno, Alfredo Cospito, si sta lasciando morire di inedia in carcere, quello fisico, in cemento armato e sbarre. In tanti hanno espresso la loro solidarietà attaccando, nei modi che ognuno ha scelto, i vari gangli della società-carcere e dello Stato che lo tiene prigioniero, sperando che questo allentasse la sua morsa. Tutto ciò non è bastato ed ora, contro la sua volontà, lo Stato vuole obbligarlo a restare in vita. Ecco, presto sarà l’obiettivo dell’attacco che bisognerà ridisegnare; continuare a farlo anche per provare a imporre allo Stato di lasciar morire Alfredo, rispettando quella che è la sua volontà, la sua scelta portata avanti con estrema determinazione. È tragico e brutale da scrivere, ma è anch’essa una battaglia per la libertà, affinché lo Stato non continui a stringere le sue spire e imponga di chiedere il permesso, oltre che per esprimere liberamente i propri pensieri e per vivere, anche per morire.

Affinché non venga inchiodato un altro asse a chiudere lo steccato attorno alla Libertà.

Recinto libertà pdf

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Contro le prigioni, contro lo Stato

Quando si parla di carcere non si può non gettare uno sguardo generale all’irreggimentazione della società. Chi ci vuole docili e distratti, giorno per giorno aggiunge nuovi tasselli per cancellare l’immaginario di una vita altra, che possa essere degna di questo nome. Non ci si accorge che la gestione della vita quotidiana è sempre più scansionata, frammentata, attenzionata. Basti pensare solo all’enorme quantità di telecamere presenti ad ogni angolo di strada, a monitorare ogni gesto fuori dal consentito, ad accumulare dati biometrici. Oppure alle attività di tutti i giorni che si riempiono di badge, QRcode e diavolerie varie, alla organizzazione di città sempre più regolari, omologate, sorvegliate. L’elenco potrebbe continuare ancora ma parlare di carcere significa andare al nocciolo di quello che sono gli Stati e l’autorità, fondati sullo sfruttamento e la coercizione, sulla disciplina ed il controllo, sulla mancanza di ogni etica. Il carcere è l’espressione per eccellenza di tutto questo e, per tale motivo, le rivolte nella storia lo hanno sempre individuato come luogo da abbattere. Rappresenta l’annientamento della dignità, oltreché della privazione della libertà, il tentativo di annichilire ogni individuo al fine di renderlo mansueto e adatto alla società, oppure eliminarlo completamente dalla vista, motivo per cui le prigioni moderne sono costruite in luoghi isolati e non più all’interno delle città. Ad esso sono sempre stati affiancati strumenti di tortura. I regimi differenziati ne sono un esempio, come il 41 bis in Italia, finalizzato ad estirpare qualsiasi contatto con la realtà. Suo diretto antenato, l’art 90 aveva la stessa funzione, così come anche l’isolamento diurno. Ed è quando dispensa la pena che lo Stato mostra effettivamente il suo volto, vendicativo e feroce.

Ma è anche importante ribadire che fin dalla sua istituzione il carcere è stato costellato di rivolte, proteste, scioperi, suicidi, danneggiamenti, evasioni; nonostante tutto esso non è mai stato il luogo pacificato che si voleva realizzare. Dal 20 ottobre il compagno anarchico Alfredo Cospito è in sciopero della fame contro il regime detentivo in cui si trova rinchiuso, proprio quello del 41 bis, che lo vedrebbe seppellito vivo per il resto dei suoi giorni. Molte azioni in tutto il mondo stanno dando forza alla sua protesta, in virtù di una solidarietà che si fa azione e viceversa. Poiché in effetti non vi sono molte alternative. Lottare è ciò che può rompere la normalità di questo esistente fatto di sottomissione e galere, affinché ognuno prenda il suo spazio e il suo tempo, senza autorità, senza Stato.

 SOLIDARIETÀ AD ALFREDO COSPITO E A TUTTI I PRIGIONIERI IN LOTTA.

Biblioteca Anarchica Disordine, via delle anime 2/b Lecce

disordine@riseup.net  

Contro le prigioni

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Contro le prigioni, contro lo Stato. Iniziative

Venerdì 17 febbraio ore 19:00

Proiezione di FILAKI, 2007

Documentario su società carceraria, prigioni e rivolte tra la Grecia e il mediterraneo

 

Sabato 18 febbraio ore 19:30

CONCERTO benefit prigionieri anarchici con 

INGANNO hardcore

DESPERADOS AUTO, rock punk

Biblioteca anarchica disordine, via delle anime 2/b  Lecce

disordine@riseup.net

CONTRO LE PRIGIONI iniziative

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Con la parola e con il sangue

“Con la parola e con il sangue” – Evgenija Jaroslavskaja-Markon, Indesiderabili edizioni

Il suo verbo non fu un cieco ariete

ma la tela su cui il mio respiro si incise.

La liberté”, René Char.

Evgenija Jaroslavskaja-Markon giurò di “vendicare con la parola e con il sangue”come atto di dignità e di amore. Col desiderio di vendetta tessé la tela sulla quale imprimere il suo soffio vitale, che mai fu prono alla tracotanza del dominio né ai suoi carnefici.

Memoria dal e del sottosuolo, il racconto autobiografico della ribelle è l’arma che le restava e che scelse per affrontare la sua condizione di prigionia, con la stessa dignità e lo stesso coraggio con cui visse la sua vita da individuo in lotta. La tela con la quale Eugenia ci affida il resoconto della sua vita ha impedito che ne fosse cancellata ogni traccia o che fosse recuperata e travisata come è accaduto a molti, troppi, rivoluzionari e anarchici.

Il manoscritto completato il 3 febbraio 1931 – trentanove pagine scritte in una calligrafia densa e serrata –, precedette di pochi mesi l’esecuzione della ventinovenne autrice nel cortile del reparto d’isolamento del gulag delle Solovki, sulla Sekirnaja gora. Il documento è stato scoperto nel 1996 da Irina Flige, direttrice del Centro di ricerca e informazione Memorial di San Pietroburgo, negli archivi della sede dell’FSB della regione di Arkhangelsk. Evgenija vi racconta di sé, del suo compagno di vita e di lotta Aleksandr Borisovic Jaroslavskij e di quello che fu il loro impegno nel battersi contro il tirannico potere bolscevico. Le vite dei due anarchici furono profondamente intrecciate fino alla morte di lui, secondo gli atti stilati dai suoi boia sopravvenuta il 10 dicembre 1930. Aleksandr, che agli studi accademici in fisica e matematica aveva poi preferito un percorso letterario, fu una figura di spicco nei circoli futuristi dell’Estremo Oriente russo e pubblicò, nell’arco di dieci anni, più di quindici raccolte poetiche ma, come per la sua compagna, la scrittura fu anche uno strumento per la propaganda rivoluzionaria. Giunto a Mosca nel 1922 Jaroslavskij aveva aderito al biocosmismo, circolo letterario fondato nel 1920 da alcuni anarchici universalisti e da cui si distaccò per fondare a Pietrogrado il gruppo settentrionale dei biocosmisti-immortalisti. Il potere sovietico tentò ben presto di affossarne le riflessioni che si proponevano come strumento di critica verso il regime: con l’accusa di pornografia, il governo locale di Pietrogrado fece chiudere battenti alla rivista pubblicata da Jaroslavskij, Bessmertie, iniziò a indagare sulle persone coinvolte nella sua pubblicazione e a censurare infine tutta la loro letteratura. Risale a questo periodo l’incontro tra Evgenija ed Aleksandr.

I viaggi intrapresi fianco a fianco, e di cui scrive l’autrice, furono agli inizi all’interno del paese, per tenere conferenze letterarie e antireligiose. Caso volle che nello stesso periodo un altro Jaroslavskij fosse stato incaricato dalla Unione degli atei, propaggine del governo, della propaganda antireligiosa del paese. Aleksandr, autonomo oratore e letterato, che certo si avvaleva di ben altri argomenti e di tutt’altra dialettica a sostegno della sua Idea, avrebbe creato un’inaccettabile “confusione” per il regime, che come ogni potere appoggia la propria forza su un indiscutibile pensiero unico. Ad Aleksandr Jaroslavskij fu impedito di tenere conferenze in pubblico e così, persa la loro unica fonte di reddito, i due rivoluzionari decisero di lasciare il paese.

Aleksandr ed Evgenija furono tra i tanti rivoluzionari russi rifugiatisi in questi anni a Berlino dove i due tennero conferenze e diffusero scritti sulla Russia sovietica. Riportiamo qui un estratto di uno dei primi articoli pubblicati da Jaroslavkij sulla vicenda del conflitto con l’Unione degli atei: “Io ho una mia precisa personalità e una mia reputazione letteraria senza macchia: e non desidero affatto che, a causa della smaccata appropriazione di un cognome, mi si confonda con un piccolo-borghese rifatto e con un ottuso funzionario sovietico rappresentante dell’ateismo governativo”. Da Berlino la coppia proseguì per Parigi, altra destinazione per molti anarchici russi, ma anche ucraini e polacchi, in fuga dalla repressione bolscevica; basti pensare che, nel 1925, Nestor Makhno e altri suoi compagni fondarono qui la rivista Dielo Trouda (Causa dei Lavoratori) dando vita a un dibattito internazionale sui modi d’organizzazione della causa anarchica.

Ma torniamo a Evgenija e Aleksandr. Come raccontato da Evgenija, non si trattennero a lungo a Parigi e il rientro in Unione Sovietica, a Leningrado, nell’autunno del 1927, segnò l’ultimo periodo che i due rivoluzionari poterono passare insieme. Nel maggio dell’anno successivo Aleksandr venne arrestato per le attività svolte all’estero, accusato di aver gettato discredito sul regime sovietico e poi condannato nell’ottobre seguente a cinque anni di lager. Da Mosca, dove era stato inizialmente trasferito, poi di nuovo a Leningrado e infine alle isole Solovki, Evgenija continuò a seguire il suo compagno con il quale riuscì a ottenere tre colloqui in due anni, anni in cui Evgenija decise di vivere con il “popolo della strada”, quel Lumpenproletariat in cui vedeva individui con i quali tessere possibili complicità e non un esperimento sociale cui attingere per un articolo di giornale o un programma politico.

Nella postfazione di Irina Flige della edizione russa, leggiamo che “da una simpatia tutta teorica per il mondo della piccola criminalità, predicata da molti anarchici, Evgenija passa alla pratica, giustificando il furto con ragioni ideologiche”. Se per la signora Flige gli espropri di Evgenija sono quelli di una “giovane arrabbiata”, noi vi scorgiamo piuttosto l’integrità dell’anarchica che, sin da giovanissima, aveva scelto come e da che parte stare: secondo le sue stesse parole, “non come una straniera blasonata,” ovvero con delinquenti, alcolizzati, emarginati, prostitute, bambini di strada… Nella stessa postfazione la signora Flige, dall’alto della sua poltrona e delle sue cariche istituzionali, ci informa di una corrispondenza da lei intrattenuta con degli amici della famiglia Markon; da questa apprendiamo che nella sedicenne Evgenija era già viva una coscienza inflessibile, coscienza che la spinse, pur venendo da una famiglia borghese, a nutrirsi rigorosamente solo della razione, “come tutti”. In questo senso la sua opera autobiografica è un elogio della scelta, fine ed essenziale strumento dell’autodeterminazione.

I ripetuti arresti non sfiancarono la risolutezza di Evgenija. Dopo la prima condanna del 1929 a un mese di lavori forzati nel carcere di Butyrki e una seconda nello stesso anno a tre anni di confino, fu poi deportata per tre anni in Siberia. Evgenija parla di tutto questo nella sua autobiografia, che si conclude con un enigmatico “Il resto vi è noto”. “Il resto”, ricostruito a posteriori, è che Evgenija fu arrestata e imprigionata il 17 luglio 1930 per la sua fuga dal confino nella regione siberiana di Krasnojarsk e per “complicità in un tentativo di evasione”. Giunta illegalmente a Kem’, Evgenija aveva come obiettivo quello di liberare Aleksandr dalle isole Solovki, piano di evasione condotto con un altro detenuto e che purtroppo non andò a buon fine. Dopo un mese di ulteriore prigionia a Kem’, Evgenija fu internata in un reparto di isolamento alle isole Solovki mentre gli aguzzini della polizia politica GPU decidevano di condannarla a tre anni di lager, poco prima che Aleksandr fosse fucilato, non senza aver gridato il suo ultimo “Viva l’anarchia!”.

Nel periodo di prigionia Evgenija tentò di persuadere i suoi compagni di lager a rifiutarsi di lavorare, pubblicò anche un foglio manoscritto, la Gazeta Urkanskaia Pravda, la Gazzetta dei delinquenti, esortazione alla ribellione contro il potere bolscevico. Fu all’interno del lager, dove i cekisti, in una logica di terrore di Stato, usavano leggere ad alta voce l’elenco delle condanne inflitte a tutti i prigionieri della GPU, che Evgenija venne a conoscenza della condanna di Aleksandr. Era il 18 ottobre 1930 ed Evgenija, che lo credeva già assassinato, provò per tre volte a togliersi la vita. Poco tempo dopo, l’11 novembre, Evgenija cercò vendetta per Aleksandr provando a colpire il carceriere e torturatore Dimitri Vladimirovic Uspenskij, vicedirettore del lager delle Solovki e direttore della quarta sezione. La vendetta non andò a buon fine ed Evgenija fu condotta nella cella di rigore dove scrisse la sua autobiografia. Giudicata colpevole di “atto terroristico” e “propaganda rivoluzionaria”, ad Evgenija fu strappata la vita il 20 giugno 1931, non quel soffio vitale che i morti in vita non conosceranno mai e che lei stessa si è premurata di trasmettere, come un messaggio nella bottiglia.

“Con la parola e con il sangue” – Evgenija Jaroslavskaja-Markon.

Indesiderabili edizioni pp. 129 – 8 euro

Ai distributori 6 euro a copia (minimo 5 copie).

L’intero ricavato del libro è a beneficio degli e delle anarchiche detenute in Cile.

per richieste:

indesiderabiliedizioni@gmail.com

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Nuovi titoli in consultazione

  • Capitalismo resiliente. Uno sguardo siciliano su estrattivismo e nocività del new green deal, s. e., s. d. [2022], pp. 44;
  • Autobiografia di Malcolm X, ed. Einaudi, 1978, pp. 515;
  • Henri Alleg, La tortura, ed. Einaudi, 2022, pp. 107;
  • Oscar Wilde, La virtù dell’irriverenza, ed. Eléuthera, 2022, pp. 243;
  • Claudio Strambi, L’inquieta attitudine. Camillo Berneri e la vicenda politica dell’anarchismo in Italia. Primo libretto, ed. Kronstadt, 2015;
  • Franca Pieroni Bortolotti, Socialismo e questione femminile in Italia 1892-1922, ed. Mazzotta, 1974, pp. 233;
  • Franco Venturi, Il populismo russo. Herzen Bakunin, Cernysevskij. Vol. I, ed. Mimesis, 2021, pp. CXXIX + 375;
  • Franco Venturi, Il populismo russo. Dalla liberazione dei servi al nichilismo. Vol. II, ed. Mimesis, 2021, pp. 479;
  • Franco Venturi, Il populismo russo. Dall’andata nel popolo al terrorismo. Vol. III, ed. Mimesis, 2021, pp. 445;
  • Bianca Bonavita, Nuda morte o del libero morire, ed. Nautilus, 2022, pp. 125;
  • Carmine Mangone, Nostra poesia dei lupi, ed. Nautilus, 2022, pp. 60;
  • Raoul Vaneigem, Ritorno alla vita, ed. Nautilus, 2022, pp. 45;
  • Gianluca Toro, Amanita muscaria. Simboli, tradizioni, iconografia, ed. Nautilus, 2022, pp. 294;
  • Orazio Maria Valastro, Con animo imprescrittibile: diario di un disertore, ed. Sensibili alle foglie, 2022, pp. 127;
  • Jacqueline Andres, The hub of the med. Una lettura della «geografia militare» statunitense in Sicilia, ed. Sicilia Punto L, 2018, pp.151;
  • Giangilberto Monti, L’amore che fa boum! La vera storia della Banda Bonnot, ed. VoloLibero, 2013, pp. 287;
  • Caligine n°4. Parole al negativo tra le fosche tinte della realtà, primavera-estate 2022, pp. 36;
  • I giorni e le notti n°14. Rivista anarchica, luglio 2022, pp. 98;
  • MalaMente n°3. Rivista di lotta e critica del territorio, aprile 2016, pp. 56;
  • MalaMente n°4. Rivista di lotta e critica del territorio, luglio 2016, pp. 60;
  • MalaMente n°26. Rivista di lotta e critica del territorio, settembre 2022, pp. 112;
  • MalaMente n°27. Rivista di lotta e critica del territorio, dicembre 2022, pp. 132;
  • Nunatak n°65. Rivista di storie, culture, lotte della montagna, agosto 2022, pp. 64;
  • Nunatak n°66. Rivista di storie, culture, lotte della montagna, agosto 2022, pp. 80;
  • Nurkùntra n°10. Periodico di storie, di lotta, di conflitto e prospettive anticapitaliste in Sardegna e oltre…, novembre 2021, pp. 64;
  • Nurkùntra n°11. Periodico di storie, di lotta, di conflitto e prospettive anticapitaliste in Sardegna e oltre…, febbraio 2022, pp. 60;
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Università è guerra

Venerdì 16 dicembre, nella sala conferenze del Rettorato dell’università del Salento, si è tenuto un convegno dal titolo “Dalla ricerca all’impresa: i dottorati innovativi di UniSalento”. Tra i relatori anche il rettore Fabio Pollice. Il convegno è stato interrotto per chiarire le complicità di UniSalento col militarismo. È stato aperto uno striscione con scritto “UniSalento complice della guerra”, effettuato un intervento al megafono e distribuito il seguente volantino.

Università è guerra

Quanto lontani i tempi in cui dalle università scaturiva la scintilla che infiammava i cuori alla ricerca dello sconvolgimento sociale, e quelli in cui dai campus partiva la rivolta contro le guerre di aggressione. Oggi accade esattamente l’opposto: nelle università, come ogni altro àmbito della società, si prepara la guerra, e UniSalento non è da meno.

Da anni non si contano più gli accordi di collaborazione con enti militari, dall’esercito all’aeronautica, dalla Nato a Leonardo, uno dei massimi produttori di sistemi militari al mondo; accordi che non coinvolgono solo dipartimenti scientifici come ingegneria, ma anche corsi di laurea umanistici quali antropologia, sociologia, psicologia, nella formazione e ricerca di personale da inserire nei percorsi di peacebuilding, come amano chiamare con un eufemismo il percorso di colonizzazione e pacificazione che segue la guerra vera e propria.

Non interrogarsi oggi su cosa sia la guerra significa essere complici. Guerra non è più – se mai lo è stata – solo la bomba che cade lontano da casa nostra, ma significa ricerca, collaborazioni, accordi, finanziamenti… L’aereo che bombarda è solo l’ultimo anello di una catena molto lunga che inizia fuori – e talvolta dentro – la porta della nostra casa, e passa senz’altro da tutte le università. La guerra inizia qui, e copre ogni aspetto del nostro vivere. Per questo non è possibile chiudere gli occhi su ciò che produce il nostro lavoro; ogni attività umana, nel mondo di oggi, ha ripercussioni da qualche altra parte, e se pensiamo che un nostro dottorato di ricerca in qualche scienza umanistica o per la costruzione di una piccola antennina non danneggi nessuno, è possibile che si stia lavorando a un sistema d’arma che ammazzerà qualcuno in un luogo sperduto o ci si stia preparando a insegnare la rassegnazione e l’accettazione della guerra a qualche popolazione aggredita.

Non basta lo sdegno all’ora di pranzo mentre passano in tv i crimini di qualche esercito o forza di polizia straniera, magari di regimi dittatoriali.

Le forze di polizia, diceva un vecchio proscritto, sono tutte sorelle, e il mestiere di ogni soldato del mondo è fare la guerra e ammazzare.

Il rettore Fabio Pollice è senz’altro uno dei massimi responsabili della direzione di guerra che ha intrapreso UniSalento; una vera e propria passione per accordi e convenzioni con enti militari e aziende di armamenti, come se fosse la stessa cosa che coltivare piante sul balcone di casa.

Insomma un vero Pollice verde, ma verde militare.

Antimilitaristi

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The Jackson Pollock in concerto

Venerdì 23 dicembre ore 21

The Jackson Pollock in concerto

a garage, punk, explosion band

Biblioteca Anarchica Disordine

via delle anime 2/b Lecce

disordine@riseup.net

TJP

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Stragista è lo Stato

Il 12 dicembre ricorre l’anniversario di quella che è stata definita “la madre di tutte le stragi”, ovvero quella della Banca dell’Agricoltura a Milano, in piazza Fontana, nel 1969. Organizzata e realizzata da mani fasciste in combutta con apparati dello Stato, molte altre seguirono e tanto altro sangue venne versato. Stragi pianificate scientificamente nel tentativo di imprimere una svolta ancora più autoritaria alla giovane Repubblica italiana.

Oggi, a Torino, invece, verrà decisa la pena per due compagni anarchici – Alfredo ed Anna – accusati di “strage politica”, imputati del posizionamento di due ordigni esplosivi fuori dalla scuola dei carabinieri in provincia di Cuneo nel 2006, senza causare morti o feriti. Rischiano l’ergastolo, ed Alfredo si trova detenuto in regime di 41 bis da maggio.

Può sembrare un assurdo logico un processo per strage senza neanche un morto, ma non lo è quando gli imputati sono anarchici; lo Stato vuole appioppare loro il carcere a vita non per quanto hanno commesso, ma per le idee che portano in cuore e per le azioni che sono espressione di quelle idee.

Chiunque sia stato a posizionare quegli ordigni, non voleva colpire indiscriminatamente in una banca, una stazione o su un treno, ma aveva scelto accuratamente il suo obiettivo. Una scuola carabinieri è un luogo in cui vengono formati i difensori dell’ordine costituito, coloro che reggono questo Stato di cose e che quotidianamente compiono una lenta ma inesorabile strage fatta di gente ammazzata per strada o in caserma (Cucchi vi dice qualcosa?), arrestata e morta in prigione, espulsa e mandata a morire altrove, uccisa direttamente nei luoghi dei conflitti in giro per il mondo dove compiono le loro missioni …

Da una di queste scuole erano usciti gli stessi carabinieri implicati nella strage di Piazza Fontana e tutte quelle successive.

Il gesto per cui Alfredo ed Anna rischiano di essere seppelliti in prigione a vita, a parte non avere mietuto vittime, si differenzia per un altro aspetto dalle stragi di Stato: per la profondità etica che lo contraddistingue. Quanto gli viene imputato non mirava ad imporre autoritarismo e repressione, ma al suo opposto: ad aprire uno squarcio di libertà in un mondo di catene, attaccandone uno degli anelli principali.

Come anarchici non possiamo arretrare davanti ad un salto repressivo che intenta sempre più chiaramente processi alle intenzioni ed alle idee, ma proprio per questo dobbiamo continuare ad affermare che siamo ancora per la distruzione dello Stato e la costruzione di un mondo libero da galere, gerarchie ed autorità; che siamo ancora per l’attacco violento contro uomini e strutture di Stato e Capitale e per l’insurrezione, unica possibile via per aprire un sentiero non segnato su alcuna mappa, che si chiama libertà.

StragistaA3

Manifesto e volantino distribuito e affisso a Lecce

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Consumo permanente

Che i nostri pasti siano pasti ciclici è un segno della nostra umanità. In quanto tra i tempi dei pasti si apre il tempo libero dal consumo e l’ampio orizzonte del mondo non consumabile, il territorio dell’assente, del solo contemplativo, del solo osservabile, del possibile – in breve: il mondo dello spirito. Davvero? Ancora oggi?

Non proprio.

Giacché il trend indica un consumo ininterrotto, un’esistenza in cui noi consumiamo ininterrottamente così come respiriamo: ininterrottamente mastichiamo il chewing gum, ininterrottamente ascoltiamo la radio. E poiché non c’è nulla che non diventi oggetto di consumo, l’avvicendarsi di un oggetto di consumo a un altro garantisce la continuità del consumo.

Una condizione animale. Anzi la condizione degli animali più triviali. Non di quelli che misurano la distanza, scrutando o volando per raggiungere le loro prede. Il loro orizzonte è ancora vasto; il loro tempo in gran parte libero dal consumo. Non la condizione dell’aquila. Bensì quella del pollo, del perennemente beccante.

I polli possono consumare ininterrottamente perché «il bene è sempre così prossimo», perché tutto è sempre presente, perché vivono nel paese della cuccagna dei polli. Poiché per loro c’è sempre tutto, non c’è nulla che manchi verso cui debbano puntare. Poiché non hanno bisogno che qualcos’altro li interessi, sono anche defraudati della possibilità «d’interessarsi a qualcos’altro». Vivendo nel paese della cuccagna restano dunque privi di mondo e ottusi. Se sperimentano lo «spazio» è tutt’al più quando «cercano di scappare» cioè nella fuga: la quale però non è verso l’aperto, ma verso il chiuso; non verso la scoperta, ma verso il coperto. In breve: restano piccoli borghesi.

Ecco: il piccolo borghese è ciò che dobbiamo aspettarci come esito finale dell’avventura «tecnica», poiché la tecnica consegna a domicilio il mondo come piacevole consumo permanente. Il piccolo borghese, sempre che l’umanità non si estingua prima del raggiungimento di questo punto più basso, sarà l’ultimo uomo.

Gunther Anders, Stenogrammi filosofici

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