“Con la parola e con il sangue” – Evgenija Jaroslavskaja-Markon, Indesiderabili edizioni
Il suo verbo non fu un cieco ariete
ma la tela su cui il mio respiro si incise.
“La liberté”, René Char.
Evgenija Jaroslavskaja-Markon giurò di “vendicare con la parola e con il sangue”come atto di dignità e di amore. Col desiderio di vendetta tessé la tela sulla quale imprimere il suo soffio vitale, che mai fu prono alla tracotanza del dominio né ai suoi carnefici.
Memoria dal e del sottosuolo, il racconto autobiografico della ribelle è l’arma che le restava e che scelse per affrontare la sua condizione di prigionia, con la stessa dignità e lo stesso coraggio con cui visse la sua vita da individuo in lotta. La tela con la quale Eugenia ci affida il resoconto della sua vita ha impedito che ne fosse cancellata ogni traccia o che fosse recuperata e travisata come è accaduto a molti, troppi, rivoluzionari e anarchici.
Il manoscritto completato il 3 febbraio 1931 – trentanove pagine scritte in una calligrafia densa e serrata –, precedette di pochi mesi l’esecuzione della ventinovenne autrice nel cortile del reparto d’isolamento del gulag delle Solovki, sulla Sekirnaja gora. Il documento è stato scoperto nel 1996 da Irina Flige, direttrice del Centro di ricerca e informazione Memorial di San Pietroburgo, negli archivi della sede dell’FSB della regione di Arkhangelsk. Evgenija vi racconta di sé, del suo compagno di vita e di lotta Aleksandr Borisovic Jaroslavskij e di quello che fu il loro impegno nel battersi contro il tirannico potere bolscevico. Le vite dei due anarchici furono profondamente intrecciate fino alla morte di lui, secondo gli atti stilati dai suoi boia sopravvenuta il 10 dicembre 1930. Aleksandr, che agli studi accademici in fisica e matematica aveva poi preferito un percorso letterario, fu una figura di spicco nei circoli futuristi dell’Estremo Oriente russo e pubblicò, nell’arco di dieci anni, più di quindici raccolte poetiche ma, come per la sua compagna, la scrittura fu anche uno strumento per la propaganda rivoluzionaria. Giunto a Mosca nel 1922 Jaroslavskij aveva aderito al biocosmismo, circolo letterario fondato nel 1920 da alcuni anarchici universalisti e da cui si distaccò per fondare a Pietrogrado il gruppo settentrionale dei biocosmisti-immortalisti. Il potere sovietico tentò ben presto di affossarne le riflessioni che si proponevano come strumento di critica verso il regime: con l’accusa di pornografia, il governo locale di Pietrogrado fece chiudere battenti alla rivista pubblicata da Jaroslavskij, Bessmertie, iniziò a indagare sulle persone coinvolte nella sua pubblicazione e a censurare infine tutta la loro letteratura. Risale a questo periodo l’incontro tra Evgenija ed Aleksandr.
I viaggi intrapresi fianco a fianco, e di cui scrive l’autrice, furono agli inizi all’interno del paese, per tenere conferenze letterarie e antireligiose. Caso volle che nello stesso periodo un altro Jaroslavskij fosse stato incaricato dalla Unione degli atei, propaggine del governo, della propaganda antireligiosa del paese. Aleksandr, autonomo oratore e letterato, che certo si avvaleva di ben altri argomenti e di tutt’altra dialettica a sostegno della sua Idea, avrebbe creato un’inaccettabile “confusione” per il regime, che come ogni potere appoggia la propria forza su un indiscutibile pensiero unico. Ad Aleksandr Jaroslavskij fu impedito di tenere conferenze in pubblico e così, persa la loro unica fonte di reddito, i due rivoluzionari decisero di lasciare il paese.
Aleksandr ed Evgenija furono tra i tanti rivoluzionari russi rifugiatisi in questi anni a Berlino dove i due tennero conferenze e diffusero scritti sulla Russia sovietica. Riportiamo qui un estratto di uno dei primi articoli pubblicati da Jaroslavkij sulla vicenda del conflitto con l’Unione degli atei: “Io ho una mia precisa personalità e una mia reputazione letteraria senza macchia: e non desidero affatto che, a causa della smaccata appropriazione di un cognome, mi si confonda con un piccolo-borghese rifatto e con un ottuso funzionario sovietico rappresentante dell’ateismo governativo”. Da Berlino la coppia proseguì per Parigi, altra destinazione per molti anarchici russi, ma anche ucraini e polacchi, in fuga dalla repressione bolscevica; basti pensare che, nel 1925, Nestor Makhno e altri suoi compagni fondarono qui la rivista Dielo Trouda (Causa dei Lavoratori) dando vita a un dibattito internazionale sui modi d’organizzazione della causa anarchica.
Ma torniamo a Evgenija e Aleksandr. Come raccontato da Evgenija, non si trattennero a lungo a Parigi e il rientro in Unione Sovietica, a Leningrado, nell’autunno del 1927, segnò l’ultimo periodo che i due rivoluzionari poterono passare insieme. Nel maggio dell’anno successivo Aleksandr venne arrestato per le attività svolte all’estero, accusato di aver gettato discredito sul regime sovietico e poi condannato nell’ottobre seguente a cinque anni di lager. Da Mosca, dove era stato inizialmente trasferito, poi di nuovo a Leningrado e infine alle isole Solovki, Evgenija continuò a seguire il suo compagno con il quale riuscì a ottenere tre colloqui in due anni, anni in cui Evgenija decise di vivere con il “popolo della strada”, quel Lumpenproletariat in cui vedeva individui con i quali tessere possibili complicità e non un esperimento sociale cui attingere per un articolo di giornale o un programma politico.
Nella postfazione di Irina Flige della edizione russa, leggiamo che “da una simpatia tutta teorica per il mondo della piccola criminalità, predicata da molti anarchici, Evgenija passa alla pratica, giustificando il furto con ragioni ideologiche”. Se per la signora Flige gli espropri di Evgenija sono quelli di una “giovane arrabbiata”, noi vi scorgiamo piuttosto l’integrità dell’anarchica che, sin da giovanissima, aveva scelto come e da che parte stare: secondo le sue stesse parole, “non come una straniera blasonata,” ovvero con delinquenti, alcolizzati, emarginati, prostitute, bambini di strada… Nella stessa postfazione la signora Flige, dall’alto della sua poltrona e delle sue cariche istituzionali, ci informa di una corrispondenza da lei intrattenuta con degli amici della famiglia Markon; da questa apprendiamo che nella sedicenne Evgenija era già viva una coscienza inflessibile, coscienza che la spinse, pur venendo da una famiglia borghese, a nutrirsi rigorosamente solo della razione, “come tutti”. In questo senso la sua opera autobiografica è un elogio della scelta, fine ed essenziale strumento dell’autodeterminazione.
I ripetuti arresti non sfiancarono la risolutezza di Evgenija. Dopo la prima condanna del 1929 a un mese di lavori forzati nel carcere di Butyrki e una seconda nello stesso anno a tre anni di confino, fu poi deportata per tre anni in Siberia. Evgenija parla di tutto questo nella sua autobiografia, che si conclude con un enigmatico “Il resto vi è noto”. “Il resto”, ricostruito a posteriori, è che Evgenija fu arrestata e imprigionata il 17 luglio 1930 per la sua fuga dal confino nella regione siberiana di Krasnojarsk e per “complicità in un tentativo di evasione”. Giunta illegalmente a Kem’, Evgenija aveva come obiettivo quello di liberare Aleksandr dalle isole Solovki, piano di evasione condotto con un altro detenuto e che purtroppo non andò a buon fine. Dopo un mese di ulteriore prigionia a Kem’, Evgenija fu internata in un reparto di isolamento alle isole Solovki mentre gli aguzzini della polizia politica GPU decidevano di condannarla a tre anni di lager, poco prima che Aleksandr fosse fucilato, non senza aver gridato il suo ultimo “Viva l’anarchia!”.
Nel periodo di prigionia Evgenija tentò di persuadere i suoi compagni di lager a rifiutarsi di lavorare, pubblicò anche un foglio manoscritto, la Gazeta Urkanskaia Pravda, la Gazzetta dei delinquenti, esortazione alla ribellione contro il potere bolscevico. Fu all’interno del lager, dove i cekisti, in una logica di terrore di Stato, usavano leggere ad alta voce l’elenco delle condanne inflitte a tutti i prigionieri della GPU, che Evgenija venne a conoscenza della condanna di Aleksandr. Era il 18 ottobre 1930 ed Evgenija, che lo credeva già assassinato, provò per tre volte a togliersi la vita. Poco tempo dopo, l’11 novembre, Evgenija cercò vendetta per Aleksandr provando a colpire il carceriere e torturatore Dimitri Vladimirovic Uspenskij, vicedirettore del lager delle Solovki e direttore della quarta sezione. La vendetta non andò a buon fine ed Evgenija fu condotta nella cella di rigore dove scrisse la sua autobiografia. Giudicata colpevole di “atto terroristico” e “propaganda rivoluzionaria”, ad Evgenija fu strappata la vita il 20 giugno 1931, non quel soffio vitale che i morti in vita non conosceranno mai e che lei stessa si è premurata di trasmettere, come un messaggio nella bottiglia.