Il tempo che viviamo

L’infamia è il tratto distintivo del tempo che viviamo. Rendersene conto non è difficile: basta sollevare gli occhi dallo smartphone e guardarsi attorno, gettando uno sguardo sulla realtà che ci circonda e in cui siamo immersi.

Restare indifferenti di fronte ai conflitti che divampano nel mondo, con tutto il loro carico di migliaia di morti e milioni di sfollati, credendo che la faccenda non ci riguardi, perché viviamo nella parte “non belligerante” del pianeta, per esempio, è segno d’infamia. Perché la guerra in corso investe ormai da molti anni l’intero pianeta, e la parte non colpita dalle bombe è quella in cui queste si fabbricano, gli eserciti si addestrano per andare a massacrare o insegnare a farlo ad altri eserciti, e negli aeroporti vicino a noi si addestrano i piloti dei bombardieri di quelle guerre…

Non vedere la sofferenza di quei milioni di profughi, costretti a vagare per il pianeta in cerca della propria sopravvivenza, disposti a rischiare la vita nell’attraversamento di deserti e mari, in balìa di chi specula su quella sofferenza è anch’esso segno di infamia. Perché le condizioni di questa sofferenza sono state create nell’Occidente che viviamo, e le barriere che gli Stati apparentemente lontani da noi hanno eretto – come Libia o Turchia – sono state finanziate dai governanti che noi abbiamo eletto.

Gioire quando la gente muore nei mari o nei deserti, o quando arriva in Europa ma viene espulsa per la mancanza dei giusti documenti – conseguenza della sua condizione di povertà –, così come quando viene rinchiusa nei lager italiani chiamati CPR, è anch’esso segno d’infamia, così come infami sono tutti i discorsi reazionari e xenofobi sulla bocca di molti di quegli italiani brava gente, riflesso del pensiero infame dei loro governanti e delle loro politiche di esclusione e di discriminazione verso stranieri, poveri, omosessuali, donne e “diversi” in genere.

Ecco allora che non meraviglia che un infame come il defunto monsignor Ruppi, arcivescovo di Lecce per due decenni e gestore, per mano del suo degno scagnozzo don Cesare Lodeserto, di uno dei più infami lager per stranieri poveri d’Italia, il CPT “Regina Pacis”, venga seppellito nel Duomo di Lecce, così come aveva chiesto prima della sua tardiva morte nel 2011, e le sue spoglie siano state traslate proprio in questi giorni nella cattedrale leccese.

Lo svolgersi della Storia in senso sempre più orwelliano vorrebbe cancellare le nefandezze, le violenze, gli abusi e le botte che nel “Regina Pacis” sono stati perpetrati per anni, e trasformare un infame in un santo. Noi, per quanto ci riguarda, non siamo disposti a dimenticare.

Ma in fondo la sua sepoltura nel Duomo leccese non può neanche infastidirci. Anzi.

Sarà più agevole, per noi, sputare sulla sua tomba.

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