Deportazione

Caro signore e amico,

essendo stato deportato dall’Irlanda, internato a Le Havre, trasferito da Le Havre a Rouen, da Rouen al manicomio Sainte-Anne a Parigi, dal manicomio Sainte-Anne a Parigi al manicomio di Ville-Évrard nel dipartimento della Senna al manicomio di Rodez, conosco le deportazioni, poiché la medicina si conosce con i dolori e per curare i dolori bisogna averli sofferti, e io non mi sarei azzardato a parlare della sua deportazione in Germania nel 1942, come lei stesso mi ha chiesto, se le circostanze non mi avessero posto come lei in stato di deportazione. Essere deportato è in effetti un fatto e uno stato che non studierò dal punto di vista medico o scientifico perché odio la medicina quanto la scienza, ma di cui posso parlarle come uno che ne ha lungamente e oserò dire: meticolosamente sofferto. Meticolosamente vuol dire che mi sono visto obbligato come lei a non perdere niente dei tormenti della mia deportazione, in quanto deportato, inoltre mi sono visto internato, e in effetti ho avuto il tempo in anni di pagliericci e di celle, coricato su pagliericci dentro celle, di pensare alla mia situazione di trapiantato e di esule. – Alla fine, caro Sig. Pierre Bousquet, abbiamo un corpo. (…)

Comunque sia un certo giorno lei si è visto portato via dal suo domicilio non dalla forza della bufera, del mistral, dei tornado, della burrasca, di una tempesta elettrica o dei venti altani, ma da quella specie di forza senza nome, e che ha sempre avuto soltanto le facce meschine, degli indifferenti che la rappresentano e vanno avanti solo perché sono comandati o pagati per farlo, e questa forza da altro non viene che dalla decisione unilaterale di un certo numero di furfanti in combutta che rappresentano il governo, la polizia, l’amministrazione, e nel suo caso la carenza di un esercito. – Essere buttato fuori brutalmente dal proprio paese, per essere trapiantato in un altro come una pianta per prevenire la carie è tremendo ed è tremendo essere di colpo spaesato brutalmente e per ordine di qualcuno. Tuffatore che perdesse l’asse di un paesaggio e nel paesaggio un brandello del suo corpo, come se vedesse di colpo il suo corpo passare nel paesaggio come il rullo di un caleidoscopio girevole. È un’immagine, una metafora di stilista ma che esprime una mostruosa e offensiva realtà. Il fatto è che non siamo i padroni dei nostri corpi. – I nostri padre-madre ne hanno disposto per la scuola, quando l’amministrazione non ne dispone per le carceri minorili o le case di correzione professionale, o la società per le prigioni e gli asili per alienati, poi la società ne dispone per il consiglio di leva, i preti per il “viatico” e l’estrema unzione della bara; e la società ne dispone per la guerra mentre lei rimane indietro a trafficare per il mercato nero. – Ma l’orribile della cosa, Sig. Pierre Bousquet, non è per me l’essere trapiantato, non consiste neppure nel fatto di non essere padrone di se stesso, è nell’insolito potere di questa cosa che non ha nome, e che in superficie ma in superficie soltanto si chiama società, governo, polizia, amministrazione e contro la quale non ci fu nemmeno il rimedio, nella storia, delle rivoluzioni. Perché le rivoluzioni sono sparite, ma la società, il governo, la polizia, l’amministrazione, le scuole, voglio dire le trasmissioni e i trasferimenti di credenze attraverso i totem dell’istruzione, sono sempre rimasti in piedi.

E si potrebbe credere che non ci sia nulla da fare.

Il giorno della sua deportazione in Germania, in mezzo a quella piccola angoscia che la prese per essere condotto dove non sapeva, e trasportato fuori di casa sua, si è trovato inquadrato. Passato si può dire di mano in mano da uomini che, per la parte che in quel momento a loro toccava, rappresentavano questo indefinibile potere. Che la polizia venga a sedersi davanti a lei in un caffè come a me è capitato, o che della gente al soldo del governo le fissi un appuntamento un certo giorno, anzi una certa mattina, a una certa ora, in un certo posto per condurla con sé in Germania, è uno di quegli obblighi immorali, una di quelle costrizioni, di quelle rassicuranti oppressive costrizioni contro le quali non c’è niente da fare. E ci si può chiedere da dove viene una cosa simile? (…)

Mi sono sempre chiesto cosa provoca nella storia la nostra sottomissione di individui a questa specie di coercizione disarmata, cosa fa sì che quando si mette in moto l’apparato sociale, amministrativo o poliziesco non pensiamo di primo acchito a protestare. – Ci sono certo qua e là delle rivolte, ma sempre la vecchia cornice ritorna come se fosse inteso che la rivolta c’è solo in vista di un accomodamento della cornice, mentre è la cornice stessa: la società, che deve sparire perché la gente possa vivere in pace. La società ha contro di noi la forza, d’accordo. Ma da cosa proviene se non dall’adesione di noi tutti alla forza della società, e non si tratta di un fatto, ma di un’idea. – È una semplice, falsa idea dei nostri corpi che da tanto tempo ci opprime, e che aspettiamo a farla saltare?

Lei dunque è stato portato di forza in Germania. – Si è trovato costretto a entrare in un convoglio di giovani Francesi deportati, e il suo corpo che usciva da casa sua, andava nelle librerie, alle mostre di pittura, nei teatri, nei cinema, nei caffè, che andava a pranzo o a cena da amici, che andava nelle biblioteche o nei musei, che si comprava liberamente i vestiti che gli piacevano, si faceva tagliare dal suo barbiere i capelli secondo il taglio che gli piaceva, e sceglieva la lozione di shampoo dal vasetto che gli piaceva (poiché è humour la libertà), questo corpo, dice, si è visto vestito da fuochista, l’hanno messo su una locomotiva, e non c’erano più né vasetto, né shampoo, non più il completo ben stirato, non più la camicia fresca tutti i giorni (la capisco poiché la camicia che ho avuto dopo sei anni di internamento, fu quella che mi venne data dalla signora Régis per ordine del Dr. Ferdière. Una camicia da città con un collo e una cravatta, poiché il Dr Ferdière non volle che qui fossi vestito da internato).

Come camicia e completo non ebbe dunque altro che una bombardamento di ceneri di carbone a palate nel ventre di una macchina che avrebbe mandato volentieri a farsi tamponare da qualche parte. E alla sofferenza della deportazione si univa in lei la sofferenza dell’esilio.

C’è nell’esilio una possessione, quella dello spirito straniero che ricopre notte e giorno un uomo e gli chiede di trasudare la propria coscienza nel suo senso, è un modellare per operazione. – Lei mi ha detto che non era stato malmenato. – Si malmenano infatti solo i recalcitranti, non è il metodo o la maniera, voglio dire il procedimento segreto, il comportamento profondo dell’oppressore di fronte all’oppresso quello di rovinargli in primo luogo il corpo. Il conquistatore non distrugge il vinto, non ha interesse a sbarazzarsi del vinto bensì a penetrarlo con un veleno proprio finché in lui il simile si assimili al simile, e non ci sia più il vinto ma il suo corpo solo con la coscienza del solo vincitore; questa operazione è comune in tutto il mondo, ma non si sa che è volontaria e concertata e viene fatta, voglio dire vissuta da un certo numero di individui che hanno l’unica funzione di pensare alle individualità interessanti, e far di tutto per trasmettere loro il virus della deportazione, dell’internamento, della carcerazione, della schiavitù, e quello della nazionalità. (…)

Antonin Artaud, Rodez, 16 maggio 1946, Al signor Pierre Bousquet

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