Auschwitz – Perché

Auschwitz

Quando parli di Auschwitz, evita solennità. Il tono solenne non gli si addice, è ancora troppo umano, potrebbe suonare come se da qualche parte ci fosse ancora una possibilità di senso o di riconciliazione – e lasciare aperta questa possibilità sarebbe una svalutazione mortale del mostruoso che è stato. Non parlare di «morti». Tanto meno di «assassinati». Entrambe le parole sarebbero un oltraggio. Nessuno è stato ucciso. Così come nessuno è stato assassinato. Per quanto profondamente ciò possa turbarti, per quanto ciò possa esserti gravoso, l’unico misurato, l’unico vero, l’unico dignitoso discorso dei milioni di oltraggiati, è quello cinico. Devi dunque parlare del materiale, avviato alla macchina per la lavorazione, che era dotato della singolare qualità di poter vedere, sentire, percepire. E (quando parli dei testimoni che si presentano oggi): dei residui di materiale rimasti casualmente non lavorati, i quali a loro volta posseggono la singolare qualità di poter ricordare, testimoniare e accusare. – Solo così. Parlare in modo diverso non è permesso e appare già come giustificazione.

Perché

Quando sento la parola «ordine», mi si drizzano i capelli perché allora sento lo sferragliare verso Auschwitz dei convogli in orario di Eichmann che, con la formula «tutto in ordine», erano pronti a partire. È la parola più rivoltante che conosca. È la perifrasi del mostruoso. Scaturisce direttamente dalla bocca della macchina. È così profondamente infamata che dovrebbe essere bandita per secoli. E anche oggi – in questo, a prescindere dalla maggiore raffinatezza della dissimulazione odierna, non è diversa dai giorni di Eichmann – mira esclusivamente a coprire la mancanza di scrupoli; a intorpidire in noi l’idea di ciò che è ordinato o comandato; a paralizzare il nostro interesse per gli effetti di ciò a cui partecipiamo; in breve, a persuaderci che dobbiamo fidarci dello scorrere liscio della macchina perché scorre in modo liscio.

Günther Anders, Stenogrammi filosofici

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