Realismo o utopia

Le informazioni e le conoscenze sullo stato di salute del pianeta di cui dispongono i Governi, certo più approfondite e allarmanti di quanto comunichino alla massa, hanno spinto il Parlamento europeo ad adottare la recente risoluzione che imporrebbe, a partire dal 2035, lo stop alla produzione di auto con motore a scoppio – benzina, diesel, metano, gpl e perfino ibride – per concentrarla esclusivamente sulle auto elettriche, nel vano tentativo di ridimensionare, o quantomeno contenere, l’inquinamento e l’innalzamento della temperatura globale della biosfera.

Subito si sono levate le dichiarazioni di giubilo dei politici della sinistra progressista, che vedono nel progresso scientifico e nell’avanzamento tecnologico la panacea di tutti i mali che scienza e tecnologia hanno causato, a cui hanno fatto da controcanto le affermazioni dell’ala più reazionaria della politica, preoccupate invece della scelta del Parlamento europeo.

Un giornale di destra, che non citiamo per decenza, è arrivato a pubblicare un articolo dal titolo tanto emblematico quanto paradossale: “Moriremo di utopia”.

Magari, verrebbe da pensare…

Se “utopia” da un punto di vista etimologico significa “non luogo”, sotto il profilo ideale rappresenta qualcosa non solo di sconosciuto, ma anche di inconoscibile, ovverosia un qualcosa verso cui tendere – la tensione utopica – ma che non si è in grado di conoscere, di immaginare e prefigurarsi. In un certo senso si tratta di una possibilità, di una salto nel buio non perché si conosce cosa si andrà ad incontrare, ma per una sorta di visione del mondo al negativo, ovvero perché si odia e si detesta ciò che già si conosce. Un’occasione aperta sul nulla, all’interno della quale tutto distruggere e tutto provare a ricostruire, abbandonando gli schemi mentali che ci hanno fino a quel punto accompagnato, per provare a realizzare i più folli e fantastici sogni da bambini che custodiamo negli angoli più reconditi del cuore.

Nel corso dei secoli milioni di uomini e donne hanno lottato per provare a realizzare questi loro sogni, per concretizzare le loro utopie, e la prospettiva di morire non li ha mai fermati, benché sapessero che nel momento in cui sceglievano di battersi, la morte sarebbe stata una possibilità reale; eppure questo li rendeva addirittura felici, audaci e coraggiosi, perché si sarebbe potuto – finalmente! – morire per l’utopia, non certo di utopia, che essendo per l’appunto un non luogo è, come tale, irraggiungibile. Un cammino senza fine, sempre perfettibile, che lascia inevitabilmente insoddisfatti e come tale spinge ad una lotta sempre maggiore; non l’eden promesso da tutte le religioni, ma la concezione e la concrezione mentale di un mondo realmente altro

La questione è quindi esattamente opposta a come la stampa vorrebbe presentarla. Non si tratta di tentare soluzioni che evitino all’umanità di finire nel baratro, bensì di stabilire tra quanto tempo essa si schianterà nel fondo di quel baratro in cui sta già precipitando.

Stiamo morendo di realismo. In esso ci sta facendo annegare un capitalismo che continua a proporre come soluzione delle toppe peggiori del buco, il cui unico modo per continuare a stare in piedi è rincorrere se stesso. Correre sempre più veloce per evitare di cadere. Ma fino a quando?

Eppure non occorre essere scienziati per capire che quando ci saranno miliardi di auto a motore elettrico sarà necessaria una quantità abnorme di energia per permetterne la circolazione, o per sapere che per costruire una sola batteria per auto elettriche occorrono le cosiddette “terre rare”, per la cui estrazione si combattono guerre, si devastano aree del mondo, si inquina e si sfrutta la manodopera dei più disgraziati nelle zone più povere del pianeta. E quanta energia, quanto carburante fossile consuma un macchinario impegnato a sventrare e scavare la Terra per estrarre queste “terre rare”? Siamo di fronte a un non-senso che solo il realismo assassino di chi crede di risolvere un problema creandone uno più grande può far finta di ignorare, demandando le soluzioni ad un futuro lontano in cui confidano che Scienza e Progresso porteranno soluzioni definitive.

Di fronte a tutto ciò, l’utopia è la sola possibilità che abbiamo. In ogni caso, meglio morire per essa che attendere stancamente lo schianto sul fondo mentre ci raccontano che volteggiamo liberi e leggeri nel cielo.

Se le fondamenta sono marce, inutile pensare di continuare a costruire piani per edificare un grattacielo, nella speranza che in alto l’aria sia più pulita. Unica possibile soluzione: abbattere l’edificio, e provare a ripartire da zero.

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Non esistono catastrofi naturali

Migliaia e migliaia di morti e dispersi, milioni di sfollati. Fino ad ora. Intere città spazzate via. Come se a colpire il Giappone non fosse stato un terremoto, ma bombe nucleari. Come se a devastare le case non fosse stato uno tsunami, ma una guerra.

In effetti, così è stato. Solo che i nemici che colpiscono così duramente non sono la terra o il mare. Questi non sono affatto strumenti della vendetta di una natura che siamo abituati a considerare ostile.

La guerra in corso ormai da secoli non è quella tra umanità e ambiente naturale, come molti vorrebbero farci credere per assicurarsi la nostra disciplina. Il nostro nemico siamo noi stessi.

Noi siamo la guerra. L’umanità è la guerra.

La natura è solo il suo principale campo di battaglia. Noi abbiamo causato le alluvioni, trasformando il clima atmosferico con la nostra attività industriale. Noi abbiamo rotto gli argini dei fiumi, cementificando il loro letto e disboscando le rive. Noi abbiamo fatto crollare i ponti, erigendoli con materiali di scarto scelti per vincere gli appalti. Noi abbiamo spazzato via interi borghi, edificando case in zone a rischio. Noi abbiamo contaminato il pianeta, costruendo centrali atomiche. Noi abbiamo allevato gli sciacalli, mirando al profitto in ogni circostanza. Noi abbiamo trascurato di prendere misure precauzionali contro simili eventi, preoccupati solo di aprire nuovi centri commerciali, nuove linee ferroviarie e metropolitane, nuovi stadi. Noi abbiamo permesso che tutto ciò avvenisse e si ripetesse, delegando ad altri le decisioni che invece riguardano la nostra vita.

Ed ora, dopo che abbiamo devastato il mondo per spostarci più velocemente, per mangiare più velocemente, per lavorare più velocemente, per guadagnare più velocemente, per guardare la Tv più velocemente, per vivere più velocemente, osiamo pure lamentarci quando scopriamo che moriamo anche più velocemente?

Non esistono catastrofi naturali, esistono solo catastrofi sociali.

Se non vogliamo continuare a rimanere vittime di terremoti imprevisti, di inondazioni eccezionali, di virus sconosciuti o quant’altro, non ci rimane che agire contro il nostro autentico nemico: il nostro modo di vita, i nostri valori, le nostre abitudini, la nostra cultura, la nostra indifferenza.

Non è alla natura che occorre urgentemente dichiarare guerra, ma a questa società e a tutte le sue istituzioni.

Se non siamo capaci di inventare un’altra esistenza e di batterci per realizzarla, prepariamoci a morire in quella che altri ci hanno destinato e imposto. E a morire in silenzio, così come abbiamo sempre vissuto.

[Testo di un manifesto affisso in Italia nel 2011]

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In viaggio

“All’orizzonte del tempo
Dove il mio sguardo si perde
Comincia la terra ardente
Degli uomini indomiti

È là che sono cresciuto
Come un albero selvaggio
Con gli occhi bagnati di lacrime
Coi pugni stretti di rabbia

Nella brutta stagione
Mi hanno staccato dal tronco

Trasformandomi in moncone”

CIAO DANIELE

Le compagne e i compagni della Biblioteca Anarchica Disordine

 

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Lo stalin

I miei, contadini, operai, che nulla inganna, né può ingannare,
m’hanno detto: «Su ogni paese c’è odor di merda;
Tutti i giorni c’è un po’ più odor di merda;
Ogni giorno si uccide un popolo per aumentare la merda;
Giorni di merda, radio di merda, manifesti di merda
Con grandi parole di merda annunciano progressi di merda;
I giudici non somministrano più che sentenze di merda;
Persino noi, lavoratori, si vuole che siamo di merda;
Tu che conosci dei nomi, facci il nome dell’inedita bestia,
La bestia più bestia che non è altro che merda,
Che si concepisce merda e non vuole essere che merda,
La bestia che si vuole merda, piedi, ventre, spalle, testa,
La bestia di merda che nella sua testa di merda ebbe questo pensiero di merda:
L’uomo viene ucciso ovunque; finalmente la merda può regnare! 
La merda, di merda in merda, vi smerderà tutti; 
tutto vi verrà tolto, cuore, anima, spirito, 
pane, vino, tutto, tranne la merda;
vedrete quel che può creare la merda; 
vedrete troni di merda e diamanti di merda; 
sapremo offrirvi festival di merda; 
tutti voi sfilerete, onoratissimi, davanti alla merda; 
quindi verrà la grande rivelazione della merda, 
la bibbia della merda: in principio fu la merda,
in mezzo fu la merda, alla fine sarà la merda, 
così ha scritto il Geova della merda».
— «Contadini, operai, miei immacolati, o meglio che niente può sporcare,
Trionfante a piene narici: “tutto è ben smerdato;
a mia immagine e mia merda, smerdo il mondo intero! 
persino i lavoratori hanno la mia merda nei loro pensieri!”
La bestia gigantesca distesa in questi palazzi,
Regnante di merda in merda nell’epoca della merda
Con specchi di merda in cui riflettere la propria merda
E dei letterati in fila per venti che cantano: “gloria alla merda!”
La gran bestia che è inizio, centro e fine della merda;
La bestia talmente merda che ogni terra ne diviene merda,
La bestia che ovunque predica: “la felicità è la mia merda!”
E che condanna l’umanità per delitto di lesa merda,
Il mostro tutto di merda, lavoratori, è lo stalin».
Lo chiamo lo stalin, perché non esiste uno Stalin:
Infatti la merda non può essere una merda;
Per poco che si sia di merda si è tutto di merda;
O si è per intero merda o non si è merda.
Incontestabilmente, è lo smerdatore delle popolazioni;
È, dita pelose, l’ipnotizzatore che inebetisce le nazioni;
È l’uccisore che esige dai suoi cadaveri: «Bisogna amarmi!»
È l’enorme insozzatore da cui ogni uomo deve lavarsi.
Se non è proclamato sole, si crede criticato;
Se non viene definito il più sapiente, uccide tutti i sapienti;
Se non viene definito grande permanente, uccide «prima», «dopo», «durante»;
Se potesse creare Dio, lo creerebbe per ucciderlo.
Se tra il popolo rimane un singolo non prono,
Questo Tartarino degli assassinii si mette a tremare:
«Buu, buu! hu! mi minacciano!
questo singolo, più è solo, più, buu buu, è il pericolo!
Buu, buu, buu! Presto! ho abbastanza eserciti?
Abbastanza duri poliziotti? un cremlino abbastanza spesso?
Letterati abbastanza ammaestrati? Buu, buu, buu, letterati,
Presto proclamate: “Allarmi, popolo! Un ultimo singolo è sfuggito!”
La caccia all’ultimo singolo nei miei stati è aperta!
Per catturare l’ultimo singolo si spostino mari e monti!
Per sloggiare l’ultimo singolo venga sfollata ogni città!
Per disgustare l’ultimo singolo vengano popolati tutti i deserti!
Attaccandolo, milioni contro uno, forse lo abbatteremo?
Se ogni luogo diventa prigione, rimarrà senza la sua prigione?
Uccidendo tutti ovunque, forse uccideremo anche lui?
Chiamandolo grande ultimo singolo, forse lo attireremo?»
Sul suo popolo rincretinito, regna come un bue
Contro ogni pensiero egli si difende, con le corna e le froge;
Rumina grossolanamente sotto la sua pelle enorme
Le sue gigantesche, pesanti, laide leggi di bue.
Quando il bue vuol muggire, ogni cervello deve fermarsi,
Ogni filosofo deve gridare: «Il bue ha detto giusto!»
Ogni lavoratore danzare: «Che fortuna avere il bue!»
Ogni povero proclamare: «Che onore avere il bue!»
Chiunque in ogni istante deve spaventarsi dinanzi al bue,
Chiedersi: «Avrò mica disturbato un pelo del bue?
O commesso delitto di essere umano sotto il regno del bue?
Ho peccato, ho peccato! Che io venga immolato subito al bue!»
Dallo sterco del bue deve ispirarsi ogni poesia;
Tutti i rutti del bue sono decretati sublimi;
Api non è parente di questo bovino divinizzato;
Tutto ciò che fa il bue è primo e ultimo.
Chiedo scusa ai buoni buoi, ai buoi veri,
Ai buoi, fratelli umani, che si vedono nei pascoli:
Non hanno fatto nulla perché l’ultimo degli ultimi
Sottouomini di questi tempi sia loro paragonato.
In verità l’ultimo singolo è già qui;
I passi che faccio, non li faccio che sui suoi passi;
Egli mi dà per annunciarlo un po’ della sua voce;
Ogni tiranno che decreta il silenzio alza la sua voce.
Nessuno può trattenerlo, nessuno può ucciderlo:
Gli assassini capi possono fare di tutto, non potranno mai
Fare in modo che lui non sia nato, inassassinabilmente nato, lui che è,
Essenzialmente, colui che gli assassinati generano.
In realtà l’ultimo singolo non è solo, egli è
L’incontro di milioni di assassinati;
Tutti i popoli massacrati giungono a popolarlo;
Più gli assassini sembrano re, più egli è re su di loro.
Ogni innocente ucciso resuscita in lui;
Ogni paese che piange è pianto venti volte nella sua carne;
Egli grida in pieno deserto: «che ogni deserto sia rifiutato!»
Sulle anime scacciate egli dice: «che nessuna anima sia abbandonata!»
Dal cielo, dai ruscelli, dai contadini, dagli operai
L’ultimo singolo viene incoraggiato nella sua opera;
Tutte le piante in segreto gli parlano;
Tutti i rami agitano in lui i loro rumori per aiutarlo.
La luna, la bianca immutabile, col suo frammento
Rubato dalla fronte di un bianco toro addormentato
Mette la sua testa sotto di lui quando diventa troppo malfermo,
Lo spinge più avanti sui suoi passi incerti.
Per tentare di cancellare lo Spirito che l’ha chiamato
Col suo vero nome, incancellabile per l’eternità,
Lo stalin ormai può agitarsi di merda in merda,
Mobilitare da un capo all’altro della terra tutte le merde,
La merda che è difesa da tutte le merde diventa più merda,
Perché questo è l’implacabile destino della merda:
Non v’è alleluia per la merda che nella merda
E la merda che si adula è la peggiore delle merde;
La merda aveva creduto che il poeta avrebbe tremato,
Perché ogni paese sudava di paura davanti alla merda,
Ogni paese in fretta e furia diventava merda
E ogni uomo consultava i maghi della merda.
Ma il poeta di fronte alla merda non ha ceduto
E di fronte al poeta è la merda che cederà;
Lo stalin che ordina: «Morte allo Spirito!» morirà,
Lo Spirito che gli trovò il suo giusto nome non morirà.
Armand Robin [1945]
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In consultazione

Un po’ di nuovi testi disponibili per la consultazione…

  • Tomasz Parczewski (Foma Jakovlevic Parcevskij), Kronstadt nella rivoluzione russa, ed. Colibrì / Candilita, 2013, pp. 311;
  • Victor Serge, Terremoti (San Juan Parangaricùtiro), ed. e/o, 2021, pp. 87;
  • AA. VV., Chi ha paura del consultorio, Editori Riuniti, 1981, pp. 148;
  • Camillo Daneo, La politica economica della ricostruzione 1945-1949, ed. Einaudi, 1975, pp. 337;
  • Oskar Panizza, L’Immacolata Concezione dei Papi, ed. L’Affranchi, 1991, pp. 157;
  • Armand Robin, La falsa parola e altri scritti, ed. L’Affranchi, 1995, pp. 169;
  • Georges Sorel, Considerazioni sulla violenza, ed. Laterza, 1974, pp. 381;
  • Marco Rossi, Il rovescio della guerra. Psichiatria militare e “terapia elettrica” durante il Primo conflitto mondiale, ed. Malamente, 2022, pp. 126;
  • Ursula K. Le Guin, I sogni si spiegano da soli. Immaginazione, utopia, femminismo, ed. Sur, 2022, pp. 249;
  • Cosimo Scarinzi, L’enigma della transizione. Conflitto sociale e progetto sovversivo, ed. Zero in condotta, 2000, pp. 103;
  • Malamente n°25. Rivista di lotta e critica del territorio, ed. Malamente, giugno 2022, pp. 108;
  • Nefasto n°1. Fanzine autoprodotta, Chiassobuio edizioni, marzo 2021, pp. 16;
  • Nefasto n°2. La fuga. Fanzine autoprodotta, Chiassobuio edizioni, giugno 2021, pp. 36;
  • Nefasto n°3. Il dubbio. Fanzine autoprodotta, Chiassobuio edizioni, settembre 2021, pp. 32;
  • Nefasto n°4. Assuefazione. Fanzine autoprodotta, Chiassobuio edizioni, dicembre 2021, pp. 32;
  • Nefasto n°5. Ostile. Fanzine autoprodotta, Chiassobuio edizioni, maggio 2022, pp. 32;
  • Nunatak n°64. Rivista di storie, culture, lotte della montagna, maggio 2022, pp. 64;
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Deportazione

Caro signore e amico,

essendo stato deportato dall’Irlanda, internato a Le Havre, trasferito da Le Havre a Rouen, da Rouen al manicomio Sainte-Anne a Parigi, dal manicomio Sainte-Anne a Parigi al manicomio di Ville-Évrard nel dipartimento della Senna al manicomio di Rodez, conosco le deportazioni, poiché la medicina si conosce con i dolori e per curare i dolori bisogna averli sofferti, e io non mi sarei azzardato a parlare della sua deportazione in Germania nel 1942, come lei stesso mi ha chiesto, se le circostanze non mi avessero posto come lei in stato di deportazione. Essere deportato è in effetti un fatto e uno stato che non studierò dal punto di vista medico o scientifico perché odio la medicina quanto la scienza, ma di cui posso parlarle come uno che ne ha lungamente e oserò dire: meticolosamente sofferto. Meticolosamente vuol dire che mi sono visto obbligato come lei a non perdere niente dei tormenti della mia deportazione, in quanto deportato, inoltre mi sono visto internato, e in effetti ho avuto il tempo in anni di pagliericci e di celle, coricato su pagliericci dentro celle, di pensare alla mia situazione di trapiantato e di esule. – Alla fine, caro Sig. Pierre Bousquet, abbiamo un corpo. (…)

Comunque sia un certo giorno lei si è visto portato via dal suo domicilio non dalla forza della bufera, del mistral, dei tornado, della burrasca, di una tempesta elettrica o dei venti altani, ma da quella specie di forza senza nome, e che ha sempre avuto soltanto le facce meschine, degli indifferenti che la rappresentano e vanno avanti solo perché sono comandati o pagati per farlo, e questa forza da altro non viene che dalla decisione unilaterale di un certo numero di furfanti in combutta che rappresentano il governo, la polizia, l’amministrazione, e nel suo caso la carenza di un esercito. – Essere buttato fuori brutalmente dal proprio paese, per essere trapiantato in un altro come una pianta per prevenire la carie è tremendo ed è tremendo essere di colpo spaesato brutalmente e per ordine di qualcuno. Tuffatore che perdesse l’asse di un paesaggio e nel paesaggio un brandello del suo corpo, come se vedesse di colpo il suo corpo passare nel paesaggio come il rullo di un caleidoscopio girevole. È un’immagine, una metafora di stilista ma che esprime una mostruosa e offensiva realtà. Il fatto è che non siamo i padroni dei nostri corpi. – I nostri padre-madre ne hanno disposto per la scuola, quando l’amministrazione non ne dispone per le carceri minorili o le case di correzione professionale, o la società per le prigioni e gli asili per alienati, poi la società ne dispone per il consiglio di leva, i preti per il “viatico” e l’estrema unzione della bara; e la società ne dispone per la guerra mentre lei rimane indietro a trafficare per il mercato nero. – Ma l’orribile della cosa, Sig. Pierre Bousquet, non è per me l’essere trapiantato, non consiste neppure nel fatto di non essere padrone di se stesso, è nell’insolito potere di questa cosa che non ha nome, e che in superficie ma in superficie soltanto si chiama società, governo, polizia, amministrazione e contro la quale non ci fu nemmeno il rimedio, nella storia, delle rivoluzioni. Perché le rivoluzioni sono sparite, ma la società, il governo, la polizia, l’amministrazione, le scuole, voglio dire le trasmissioni e i trasferimenti di credenze attraverso i totem dell’istruzione, sono sempre rimasti in piedi.

E si potrebbe credere che non ci sia nulla da fare.

Il giorno della sua deportazione in Germania, in mezzo a quella piccola angoscia che la prese per essere condotto dove non sapeva, e trasportato fuori di casa sua, si è trovato inquadrato. Passato si può dire di mano in mano da uomini che, per la parte che in quel momento a loro toccava, rappresentavano questo indefinibile potere. Che la polizia venga a sedersi davanti a lei in un caffè come a me è capitato, o che della gente al soldo del governo le fissi un appuntamento un certo giorno, anzi una certa mattina, a una certa ora, in un certo posto per condurla con sé in Germania, è uno di quegli obblighi immorali, una di quelle costrizioni, di quelle rassicuranti oppressive costrizioni contro le quali non c’è niente da fare. E ci si può chiedere da dove viene una cosa simile? (…)

Mi sono sempre chiesto cosa provoca nella storia la nostra sottomissione di individui a questa specie di coercizione disarmata, cosa fa sì che quando si mette in moto l’apparato sociale, amministrativo o poliziesco non pensiamo di primo acchito a protestare. – Ci sono certo qua e là delle rivolte, ma sempre la vecchia cornice ritorna come se fosse inteso che la rivolta c’è solo in vista di un accomodamento della cornice, mentre è la cornice stessa: la società, che deve sparire perché la gente possa vivere in pace. La società ha contro di noi la forza, d’accordo. Ma da cosa proviene se non dall’adesione di noi tutti alla forza della società, e non si tratta di un fatto, ma di un’idea. – È una semplice, falsa idea dei nostri corpi che da tanto tempo ci opprime, e che aspettiamo a farla saltare?

Lei dunque è stato portato di forza in Germania. – Si è trovato costretto a entrare in un convoglio di giovani Francesi deportati, e il suo corpo che usciva da casa sua, andava nelle librerie, alle mostre di pittura, nei teatri, nei cinema, nei caffè, che andava a pranzo o a cena da amici, che andava nelle biblioteche o nei musei, che si comprava liberamente i vestiti che gli piacevano, si faceva tagliare dal suo barbiere i capelli secondo il taglio che gli piaceva, e sceglieva la lozione di shampoo dal vasetto che gli piaceva (poiché è humour la libertà), questo corpo, dice, si è visto vestito da fuochista, l’hanno messo su una locomotiva, e non c’erano più né vasetto, né shampoo, non più il completo ben stirato, non più la camicia fresca tutti i giorni (la capisco poiché la camicia che ho avuto dopo sei anni di internamento, fu quella che mi venne data dalla signora Régis per ordine del Dr. Ferdière. Una camicia da città con un collo e una cravatta, poiché il Dr Ferdière non volle che qui fossi vestito da internato).

Come camicia e completo non ebbe dunque altro che una bombardamento di ceneri di carbone a palate nel ventre di una macchina che avrebbe mandato volentieri a farsi tamponare da qualche parte. E alla sofferenza della deportazione si univa in lei la sofferenza dell’esilio.

C’è nell’esilio una possessione, quella dello spirito straniero che ricopre notte e giorno un uomo e gli chiede di trasudare la propria coscienza nel suo senso, è un modellare per operazione. – Lei mi ha detto che non era stato malmenato. – Si malmenano infatti solo i recalcitranti, non è il metodo o la maniera, voglio dire il procedimento segreto, il comportamento profondo dell’oppressore di fronte all’oppresso quello di rovinargli in primo luogo il corpo. Il conquistatore non distrugge il vinto, non ha interesse a sbarazzarsi del vinto bensì a penetrarlo con un veleno proprio finché in lui il simile si assimili al simile, e non ci sia più il vinto ma il suo corpo solo con la coscienza del solo vincitore; questa operazione è comune in tutto il mondo, ma non si sa che è volontaria e concertata e viene fatta, voglio dire vissuta da un certo numero di individui che hanno l’unica funzione di pensare alle individualità interessanti, e far di tutto per trasmettere loro il virus della deportazione, dell’internamento, della carcerazione, della schiavitù, e quello della nazionalità. (…)

Antonin Artaud, Rodez, 16 maggio 1946, Al signor Pierre Bousquet

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Il grande recupero

Volantone distribuito a Lecce il 22 giugno in occasione della proiezione del documentario «La grande opera», sul gasdotto Tap e relativa opposizione.

E(ste)tica

Secondo Leopardi, la “seconda vista” era caratteristica dell’uomo sensibile e immaginoso, e c’è stato un tempo in cui questa “seconda vista” è stata messa a frutto dal mondo dell’arte, anche in termini di contestazione dell’esistente e dei suoi dogmi. Accadeva in epoca di grandi sogni e grandi speranze… Oggi ai sogni è subentrata la realtà, e la “seconda vista” è stata soppiantata da una forte miopia, che tuttalpiù spinge gli artisti a vedere fino al più vicino scranno del potere, presso cui chiedere udienza per accedere alle briciole di qualche finanziamento pubblico; impossibile pensare in termini di surrealismo, quando ci si accontenta del più becero realismo.

Potrebbero bastare queste poche parole per esprimere il nostro pensiero sul documentario «La grande opera», che pretende raccontare la realizzazione del gasdotto Tap e la relativa contestazione che lo ha accompagnato. Un film che vuole avere una visione «equidistante» tra le forze in gioco, secondo lo sguardo dell’«osservatore sociologico» che non prende posizione tra le parti in causa; evidentemente schierarsi non è da tutti, e men che meno può esserlo per un regista che attinge a finanziamenti istituzionali e lavora per l’Università della Repubblica.

Si tratta in pratica di un’opera di recupero delle istanze di protesta e di pacificazione sociale, nella cui «equidistanza» si manifesta l’idea che nell’imposizione e realizzazione di una grande opera, così come in qualunque altro aspetto della vita sociale, esistano visioni che possono apparire giuste o sbagliate, ma non esiste invece uno scontro di classe perpetuo e secolare tra ricchi e poveri, tra potenti e sottomessi, tra sfruttatori e sfruttati, tra classe dominante e classe subalterna, tra padroni e schiavi, tra inquinatori e vittime dei loro veleni…

Ma un’opera di recupero non è tale solo in virtù di chi la pensa e la realizza ma anche – e forse soprattutto – grazie a coloro che si prestano a parteciparvi, tanto più in una circostanza come quella in questione in cui gli “interpreti” non sono figure assunte ad hoc, ma personaggi – è proprio il caso di dire! – che all’opposizione a Tap hanno preso parte direttamente e preferiamo, per il momento, non entrare nel merito del ruolo che hanno avuto nel fallimento di quella lotta… Basterà per ora sapere che il documentario è stato prodotto anche grazie al sostegno di Apulia Film Commission, emanazione culturale della Regione Puglia il cui governatore, Michele Emiliano, è stato accanito sostenitore della realizzazione del gasdotto, auspicandone solo un diverso approdo. Ma forse gli “interpreti” del documentario tutti questi problemi li hanno messi sotto il tappeto fieri che un giornalista si sia «occupato di una prima fase di osservazione del movimento No Tap, selezionando le persone cinematograficamente più interessanti».

Come dargli torto? Il regista lo ha affermato chiaramente: per lui guadagnare la fiducia dei No Tap «era possibile solo attraverso il racconto di un’etica di uno sguardo che diventa estetica del film».

Dall’etica all’estetica il passo è davvero breve: solo tre lettere in più.

Questa sera a teatro!

Benvenuti ad una splendida serata a teatro! Tra maschere e personaggi (che sono poi la stessa cosa) questa sera si proietterà un documentario sul gasdotto trans adriatico dal titolo: “La Grande Opera”. Forse il titolo è anche autoreferenziale visto che lo stesso regista, Corrado Punzi, è tanto attento all’estetica da trasformare “il racconto di un’etica”.

In un’intervista rilasciata al Manifesto, pubblicata sul numero di sabato 18 giugno 2022, per promuovere l’ultima fatica, ma anche per preparare eventuali spettatori alla miglior fruizione dell’opera, l’autore ci confida quale fosse lo scopo di girare il documentario e la modalità narrativa preferita. Naturalmente l’equidistanza è una forma mentis per il nostro, dato che si tratta di un accademico, ricercatore in sociologia, dunque aduso a vedere l’altro da sé come un oggetto da analizzare. E (come sa bene ogni giornalista e cioè che un po’ di denaro e di fama valgono anche gli anni di galera che gli altri potrebbero subire per le loro riprese) non perde occasione per infilare una carrellata di scontri con le forze dell’ordine tra un racconto della buonanotte ed una gita coi bambini; gentile concessione del Comitato No Tap, non si sa mai, alcuni fotogrammi potrebbero essere sfuggiti agli agenti.

Nell’intervista su citata, Punzi confessa che da spettatore non vorrebbe una conferma delle sue idee, ma su questo punto bisogna deludere l’artista, perché è proprio quello che è successo. La visione della grande, prolissa, opera cinematografica non ha fatto altro. Innanzitutto ha confermato l’idea che tutto è spettacolo, ma lo sapevamo da tempo. Che chi è abituato a mangiare nella ciotola, non morde la mano del padrone; infatti il film può essere facilmente inteso come un encomio del progetto, voluto anche dallo Stato. Ha confermato l’atteggiamento vittimistico di entrambe le parti. Ha confermato il ruolo delle istituzioni: “Sono tutte dalla nostra” dice senza peli sulla lingua durante un meeting di Tap il suo amministratore delegato. Confermata la miopia di chi crede di aver la vista lunga, come quei contestatori che credono di poter cambiare il mondo a forza di piccole riforme, ma temono conseguenze per la scuola e il lavoro, veri pilastri di quel mondo che non vorrebbero. Ha confermato, inoltre, la mania di protagonismo di alcuni personaggi visti in quel periodo a San Foca.

L’intervista è condita con un altro spunto interessante che, però, resta sospeso: “Quello che è interessante, ed è importante partire senza pregiudizi, è raccontare le contraddizioni all’interno di un movimento e cercare di far pensare allo spettatore che se ci sono delle difficoltà non possono essere attribuite solo alla repressione giudiziaria (infatti nel film si omette che le condanne inflitte sono tre volte superiori alle richieste dell’accusa) e mediatica, ma evidentemente ci sono delle responsabilità interne. Ecco finalmente qualcosa di serio, che però il documentario non illustra affatto. Chi ha vissuto quell’esperienza ne potrebbe raccontare di responsabilità interne come: finti cortei ad uso e consumo di giornalisti e film makers (credendo di lottare?), un Comitato che si eleva a Movimento per non lasciare alcuno spazio al di fuori di esso, aderenti al Comitato che si lasciano andare a nauseabonde delazioni, auto-proclamati portavoce che fanno accordi con la prefettura a nome di tutti quegli altri che invece erano lì a lottare, persone che si dichiarano anarchiche, ma continuano a relazionarsi con la gentaglia succitata (del comitato fa parte anche il sindaco), autoritarismo dei pacifisti e via dicendo.

Nonostante tutto ciò, l’Apulia film commission regala (ok c’è un biglietto da 7 euro) l’ennesima grande opera d’arte, vi consigliamo di non mancarla, potreste ritrovarvi seduti a fianco agli attori e magari nuove star del cinema o, con meno fortuna, la digos. Non dimenticate di comprare popcorn e bibite, magari alla caffeina.

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Verrà proiettato stasera “La grande opera”, documentario sull’ultima stagione di opposizione contro il gasdotto Tap e l’ultima fase di realizzazione dello stesso.

Il regista Corrado Punzi ha affermato di aver dato voce ad entrambe le parti, fatto già aberrante, in modo che lo spettatore possa avere da sé la propria opinione a riguardo; riteniamo invece che il documentario, pur nella sua indolenza e noiosità, prenda distintamente una posizione ed esprima un messaggio per noi inaccettabile: quello della pacificazione, della controversia democratica tra chi ha costruito un’opera fortemente impattante e chi l’ha contrastata.

Documentario finanziato da Apulia film commission e Regione Puglia, che, è bene sottolineare, nel corso del tempo ha fortemente caldeggiato e favorito la costruzione del gasdotto.

Non ci stupisce in fondo che questi piccoli regista, sceneggiatore e montatore che lo hanno realizzato, abbiano messo in scena un’ora e mezzo di recupero di una lotta, con la disponibilità di chi si è prestato a partecipare a questa operazione abietta. Era già accaduto con “Et in terra pacis”, corto sulla vicenda del CPT Regina Pacis. Ora ci riprovano, con un altro regista, con “La grande opera” che suggerisce la grandiosità appunto di un’opera industriale e la sconfitta di un movimento di opposizione. D’altra parte non poteva essere altrimenti dal momento che le riprese sono iniziate a cose fatte. Poiché i piccoli regista, sceneggiatore e montatore, sembrano arrivare sempre in ritardo, probabilmente impegnati alla ricerca di qualche finanziamento pubblico, vogliamo ricordare, dal nostro punto di vista, cosa è accaduto, affinché il revisionismo e il recupero non cancellino alcuni anni di lotta.

Tap ha iniziato i lavori nel marzo 2017 ma l’opposizione è iniziata alcuni anni prima, fin da quando il Consorzio si è presentato sul territorio. Oltre alla protesta riformista, fatta di raccolta firme e denunce giudiziarie, si sono verificati sabotaggi e contestazioni molto accese. Fino ad arrivare agli espianti degli ulivi, bloccati un primo giorno da soli otto manifestanti e poi, nei giorni successivi da centinaia e centinaia di persone. In quei mesi vi è stata l’espressione di una ostilità autentica, spontanea, autorganizzata, senza capi, piena di fantasia, entusiasmo e gioia, in cui la possibilità che il gasdotto non venisse costruito era concreta. Poi vi è stato un lento declino, la costituzione di un movimento omologante e non più variegato, il protagonismo smodato di alcuni personaggi, l’inizio della repressione attraverso decine di multe di migliaia di euro per i numerosi blocchi verificatisi e, infine, l’istituzione della zona rossa. La realizzazione del gasdotto Tap, considerata opera strategica dall’Unione Europea, aveva ed ha alle spalle interessi enormi: istituzioni, colossi petroliferi, come British Petroleum e Lukoil, e la spasmodica richiesta di energia di questa società piena di merci, la cui economia guerrafondaia ha previsto e realizzato il progetto folle di un gasdotto che percorre più di 4000 km, coinvolgendo sei Stati e le popolazioni annesse, che in molti casi si sono opposte al suo passaggio.

Tap è un mostro già nella sua idea, che è quella che tutto si può sfruttare e colonizzare, tutto è mercificabile, esattamente come vuole fare questo documentario con una lotta.

Lotta il cui epilogo si è avuto già tanto tempo fa e i processi pesanti che ha subito sono purtroppo il risultato della sua debolezza e del ruolo stesso che ha la magistratura: mostrare i denti con chi lotta ed essere molto accondiscendente con chi è potente.

Presto anche questo ennesimo documentario revisionista e recuperatore verrà dimenticato insieme alla sua estetica del reale; vivo rimarrà il ricordo dei momenti vissuti di notte e di giorno e delle pratiche adottate a difesa di un’idea, di un metodo, di una terra, della natura, contro i suoi devastatori e sfruttatori.

Il grande recupero pdf                                                                  Anarchici e Nemici di Tap

giugno 2022

 

 

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Ciao Chopper / Elogio di un delicato

Ciao Chopper

Se n’è andato così, facendo progetti per il futuro, com’era abituato a fare da sempre.

Iconoclasta, anticlericale irriducibile, ha vissuto la sua vita lottando contro i dogmi religiosi di quella millenaria istituzione repressiva della vita e scuola di sottomissione che è la Chiesa cattolica.

Questa sua lotta gli è valsa l’appellativo di pazzo, di disagiato mentale, e le ire e le risatine dei bigotti, dei benpensanti e della cosiddetta gente comune. Chi lo ha conosciuto bene lo ha invece amato per la sua natura generosa e gentile.

Non sono bastati quarant’anni di persecuzione psichiatrica a spezzare la sua indole e la sua lotta. Non sono stati sufficienti la farmacologia, gli innumerevoli trattamenti sanitari obbligatori e i ricoveri nei reparti psichiatrici di molti ospedali salentini. Chopper ne è uscito ogni volta più forte e più determinato, pronto a ricominciare nuovamente daccapo e a imbastire nuovi progetti “folli”, nel senso più bello del termine…

Quasi dispiace oggi che Dio non esista, perché sarebbe stato bello vedere Chopper presentarsi al suo cospetto per oltraggiarlo direttamente, col suo linguaggio da fantasista della parola, per poi riderne assieme ai suoi amici e ai suoi compagni.

Compagni che lo hanno conosciuto, apprezzato e voluto bene, restandogli accanto in ogni momento. Ora lui non c’è più, ma restano le sue idee che – proprio come la figura della Fenice che tanto amava – risorgono ogni volta dalle proprie ceneri.

Gli Anarchici

Elogio di un delicato

Ci sono vite che lasciano il segno e non solo nel cuore e nei ricordi dei propri cari. Chopper è stata una di queste. Sognatore instancabile, animo sensibile e delicato, ha speso la sua vita lottando: contro la religione e il clero, da sempre fonte di oppressione e oscurantismo, contro le gabbie della società, sempre pronta a giudicare e reprimere chi è diverso, non allineato, “folle”.

Chopper ci ha insegnato molto, con la sua passione per il mare e la natura e i suoi progetti di piantare alberi ovunque. Con la sua indole libera, che viveva come una catena anche i propri vestiti. Con la sua tenacia nel lottare contro il fideismo religioso, la più perniciosa delle credenze, come lui la definiva. Chopper ha pagato alto il prezzo del suo essere e dei suoi gesti essendo stato sottoposto a numerosi TSO che tuttavia non lo hanno mai domato. Egli era profondamente consapevole di se stesso, di ciò che la vita gli aveva riservato, e di ciò che la religione e la psichiatria, in questo caso a braccetto, gli avevano arrecato. Oltre alla gioia, alla profondità e sensibilità, all’ironia, era l’inquietudine ad essere sempre presente nei suoi pensieri. Ed è ciò che la società, con le sue regole e i suoi schemi, non ha saputo e voluto accettare. E Chopper ha sentito spesso il peso di una comunità chiusa, incentrata sui suoi riti e poco disponibile ad aprirsi alla fantasia di un delicato. Una comunità che osanna ogni anno un santo, Giuseppe da Copertino, che prima di essere riconosciuto tale dalla Chiesa, nel tentativo di recuperare il seguito che aveva tra la gente, è stato perseguitato e processato perché ritenuto pazzo e blasfemo.

Chopper è stato un uomo senza tempo così come i suoi interessi e i suoi studi, dai classici latini e greci, fino alla storia degli indiani d’America, all’anarchismo e all’amore per la musica.

Chopper è ora libero da tutto, dalla struttura in cui si trovava, dal proprio corpo, dai pregiudizi e come amava sempre dire:

Né credo, né clero, né culto. No religions!

Per l’anarchia!

I tuoi compagni e le tue compagne

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Sul nazionalismo

Per «nazionalismo» intendo soprattutto quell’abitudine a pensare che gli esseri umani possano essere classificati come insetti, e che milioni o decine di milioni di persone possano tranquillamente essere etichettati come «buoni» o «cattivi». Ma intendo anche – aspetto molto più importante – quell’abitudine a identificare se stessi in una singola nazione o in un’unità di altro tipo, collocandola al di là del bene e del male e non riconoscendo altro dovere che la promozione dei suoi interessi.[…]

Il nazionalismo è inseparabile dal desiderio di potere. L’obiettivo costante di ogni nazionalista è quello di assicurarsi maggior potere e maggior prestigio, non per se stesso ma per la nazione o quell’altra unità nella quale ha deciso di dissolvere la propria individualità. […]

Uso la parola «nazionalismo» solo in mancanza di un termine più appropriato. Il nazionalismo, in questo significato esteso, include movimenti e tendenze come il comunismo, il cattolicesimo politico, il sionismo, l’antisemitismo, il trockismo e il pacifismo. Non comporta necessariamente la lealtà a un governo o a una nazione (ancor meno alla propria), e non è neanche necessario che la realtà alla quale è riferito esista davvero. […]

Il nazionalista è colui che pensa esclusivamente – o principalmente – in termini di prestigio competitivo. Può essere un nazionalista in senso positivo o negativo – ossia usare la propria energia mentale per sostenere o denigrare –, ma i suoi pensieri saranno sempre di vittorie, sconfitte, trionfi e umiliazioni. Concepisce la storia – soprattutto quella contemporanea – come un continuo sorgere e tramontare di grandi unità di potere, e interpreta ogni evento come la dimostrazione dell’avanzamento della sua parte e della retrocessione di qualche odiato rivale. Ma è importante non confondere il nazionalismo con il culto del successo. Il nazionalista non segue il principio per cui ci si unisce semplicemente al più forte. Al contrario, dopo aver scelto da che parte stare, si persuade che è la più forte, e rimane saldo nelle proprie credenze anche quando i fatti le contraddicono palesemente. Il nazionalismo è pertanto sete di potere unita all’autoinganno. Ogni nazionalista è capace della massima disonestà, ma è anche fermamente convinto – credendo di servire qualcosa più grande di lui – di essere nel giusto. […]

Affermare che tutte le forme di nazionalismo siano uguali, anche nella disposizione mentale, sarebbe semplificare esageratamente, ma è certo che tutte condividono una serie di caratteristiche. Ecco le principali.

Ossessione

Per quanto è possibile, nessun nazionalista pensa a qualcosa, parla o scrive di qualcosa che non riguardi la superiorità dell’unità di potere con cui si identifica. Gli è difficile, se non impossibile, nascondere la propria lealtà. La minima offesa nei confronti della sua parte, o un qualsiasi apprezzamento implicito di un’organizzazione rivale, lo riempiono di un senso di disagio che può alleviare soltanto con una risposta tagliente. Se la parte scelta è una nazione reale, come l’Irlanda o l’India, ne rivendicherà la superiorità non soltanto in termini di potere militare e virtù politica, ma anche nell’arte, nella letteratura, nello sport, nella struttura della lingua, nella bellezza fisica dei suoi abitanti, e forse addirittura nel clima, nel paesaggio e nella cucina. […]

Instabilità

L’intensità con cui viene sostenuta non rende la lealtà nazionalistica intrasferibile. […] Molto spesso i grandi leader nazionali, o i fondatori di movimenti nazionalistici, non appartengono neanche alla nazione che hanno glorificato. A volte sono stranieri, altre volte provengono da aree periferiche dove la nazionalità è incerta. […] Ma ciò che risulta stranamente interessante è che un ri-trasferimento è altrettanto possibile. Una nazione o altra unità venerata per anni può improvvisamente diventare detestabile, e le proprie simpatie possono spostarsi su un altro oggetto senza soluzione di continuità. […] Il comunista bigotto che diventa, nel corso di poche settimane – o addirittura di pochi giorni –, un trockista ugualmente bigotto, è uno spettacolo comune. In Europa continentale i membri dei movimenti fascisti vennero in gran parte reclutati tra i comunisti, ed è probabile che nei prossimi anni si verifichi il processo opposto. Ciò che rimane costante in un nazionalista è lo stato mentale: l’oggetto dei suoi sentimenti può cambiare e può anche essere immaginario.

[…] Dio, il re, l’impero, la bandiera britannica: tutti questi idoli deposti possono riapparire con nomi differenti e, dal momento che non vengono riconosciuti per quello che sono, possono essere venerati in buona coscienza. Il nazionalismo trasferito, come il capro espiatorio, è un modo per raggiungere la salvezza senza cambiare la propria condotta.

Indifferenza verso la realtà

Tutti i nazionalisti hanno la capacità di ignorare le rassomiglianze tra i fatti. Un tory inglese difenderà l’autodeterminazione della Gran Bretagna in Europa, ma si opporrà a quella indiana senza avvertire la minima incoerenza. Un’azione è considerata buona o cattiva non per ciò che è in sé, ma per chi la compie, e non esiste quasi atrocità – la tortura, l’uso degli ostaggi, il lavoro forzato, la deportazione di massa, l’imprigionamento senza processo, la falsificazione, l’assassinio, il bombardamento dei civili – che non cambi colorazione morale quando è compiuta dalla «nostra» parte. […] È lo stesso con gli eventi storici. La storia viene letta in gran parte in termini nazionalistici, e fatti come l’Inquisizione, le torture della Star Chamber, le imprese dei bucanieri inglesi (Sir Francis Drake, per esempio, che aveva l’abitudine di buttare in mare vivi i prigionieri spagnoli), il regime del Terrore, gli eroi delle ribellioni in India che uccidevano centinaia di indiani a colpi di pistola, o i soldati di Cromwell che sfregiavano il viso delle donne irlandesi con il rasoio, diventano moralmente neutri o addirittura meritori se compiuti nel nome della «giusta» causa. […]

Il nazionalista non solo non disapprova le atrocità commesse dalla parte che sostiene, ma ha anche la sorprendente capacità di non averne notizia. Per quasi sei anni gli ammiratori inglesi di Hitler trovarono il modo di non venire a conoscenza dell’esistenza di Dachau e Buchenwald. D’altra parte, quelli che più convintamente denunciano i campi di concentramento tedeschi non sono al corrente – o lo sono pochissimo – dell’esistenza dei campi di concentramento anche in Russia. Grandi eventi come la carestia del 1933 in Ucraina, che causò la morte di milioni di persone, sono di fatto sfuggiti all’attenzione della maggioranza dei russofili inglesi. Molti non hanno mai sentito parlare dello sterminio degli ebrei tedeschi e polacchi durante l’ultima guerra. Il loro antisemitismo ha fatto sì che questo enorme crimine restasse fuori dalla loro coscienza. Nel pensiero nazionalistico esistono fatti che sono allo stesso tempo veri e falsi, conosciuti e sconosciuti. Un fatto può risultare così insopportabile da venire messo da parte e tenuto lontano da ogni riflessione logica; oppure può diventare oggetto di riflessione senza però mai essere ammesso come un fatto, neppure nella mente di chi lo pensa.

[…] Molti scritti propagandistici del nostro tempo non sono che semplice contraffazione. Vengono occultati i fatti reali, le date sono alterate e le citazioni sono estrapolate dal loro contesto e aggiustate in modo tale da assumere un altro significato. Gli eventi che non sarebbero dovuti accadere non vengono citati e sono fondamentalmente negati. […] Il primo obiettivo della propaganda è, ovviamente, quello di influenzare l’opinione dei contemporanei, ma è probabile che coloro che riscrivono la storia siano davvero convinti, perlomeno con una parte della loro testa, di star realmente inserendo fatti nel passato. […]

L’indifferenza verso la verità oggettiva è incoraggiata dall’isolamento di una parte del mondo rispetto all’altra, una situazione che rende sempre più difficile scoprire cosa stia succedendo realmente. Spesso è lecito nutrire qualche dubbio di fronte a eventi di enorme portata. Per esempio, è impossibile calcolare quanti milioni – forse anche decine di milioni – siano morti in questa guerra. I disastri di cui viene data costantemente notizia – battaglie, massacri, carestie, rivoluzioni – tendono a ispirare nelle persone comuni un sentimento di irrealtà. Non c’è modo di verificare i fatti, non si è mai del tutto sicuri che siano accaduti, e ci si trova di fronte a interpretazioni totalmente discordanti provenienti da fonti diverse. […] I fatti vengono presentati in modo così disonesto da tutti i giornali che il lettore comune può essere perdonato se crede alle bugie o se non riesce a formarsi un’opinione. L’incertezza generale riguardo a ciò che succede realmente rende più facile aggrapparsi a credenze stravaganti. Dal momento che nulla viene mai completamente provato o confutato, anche fatti più incontestabili possono essere sfacciatamente rifiutati. Inoltre, nonostante il suo rimuginare continuo sul potere, la vittoria, la sconfitta e la vendetta, il nazionalista è ben poco interessato al mondo reale. Ciò che vuole è sentire che la sua parte sta avendo la meglio su qualche altra, e può farlo con più facilità cercando di prevalere sull’avversario piuttosto che esaminando i fatti per vedere se gli danno ragione. Tutte le controversie nazionalistiche sono dibattiti inconcludenti in cui i partecipanti sono sempre invariabilmente convinti di essersi guadagnati la vittoria. Alcuni nazionalisti non sono lontani da una forma di schizofrenia, vivendo piuttosto felicemente tra sogni di potere e conquista che non hanno relazione col mondo materiale.

George Orwell, Notes on Nationalism, 1945

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Anarchist Publishing fair

LECCE, ITALY – IV EDITION OF “IDEA AND ACTION”, ANARCHIST PUBLISHING FAIR, 21ST/22ND MAY, FULL PROGRAMME

Idea & Action

IV edition of the anarchist publishing fair

Two days of spreading and propagandising anarchist ideas.

Two days of books, meetings, presentations and discussions to talk about the history and topicality of the anarchist idea and action, of the indissoluble link that unites them and of their ability to influence the world with the prospect of changing it.

Saturday 21st May

3pm: opening of the fair and stalls of anarchist publications

5pm: I Giustizieri. Propaganda del fatto e attentati anarchici di fine Ottocento [The Avengers. Propaganda by the deed and anarchist attacks at the end of the nineteenth century], ed. Monte Bove, (https://edizionimontebove.noblogs.org/) 2018. Presentation by the author and discussion.

7pm: Il mondo a distanza. Su pandemia, 5G, materialità rimossa del digitale e l’orizzonte di un controllo totalitario [The world at a distance. On the pandemic, the 5G, the removed materiality of the digital and the horizon of totalitarian control], ed. Bergteufel, 2021. Presentation by the author and discussion.

9pm: benefit dinner.

 

Sunday 22nd May

10:30am: opening of stalls of anarchist publications.

11:30am: Varkarides – I battellieri. Il gruppo nichilista di Salonicco 1898-1903 [Varkarides – The fighters. The nihilist group of Thessaloniki 1898-1903], ed. Biblioteca Anarchica Sabot, 2021. Presentation with the curator and discussion.

1:30pm: benefit lunch

3:30pm: Buscando a la calle. Update on subversive and anarchist prisoners in struggle in Chilean jails. For the eradication of Pinochet’s “military justice” sentences still in force. Analysis by a comrade of the anti-prison struggle space.

Ore 5pm: Capitalismo resiliente. Uno sguardo siciliano su
estrattivismo e nocività nel Green New Deal [Resilient capitalism. A Sicilian gaze on extraction activities and nocivity in the Green New Deal], 2022. Presentation by the comrades of sciroccomadonie.noblogs.org

6:30pm: 18.30: The war and its tentacles. Sicily’s strategic role in NATO imperialist militarism. By comrades of the Sicilian antimilitarist assembly “To those who can hear the ticking”.

Editions and distros of anarchist publications are welcome.

If you come from afar let us know a few days in advance, if possible.

disordine@riseup.net

Fiera 2022 pdf

Translated by act for freedom now!

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